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venerdì 30 settembre 2011

Dany Boon non ha "niente da dichiarare"

Vedere Giu' al nord in lingua originale in un cinema a poche decine km di distanza dal Nord Pas de Calais era una magnifica esperienza cinematografica. Soprattutto divertente. Anche se eri un italiano che sapeva sì spiaccicare qualche parola in francese ma di certo non era pronto per comprendere al meglio l'accento ch'tis non potevi controllare le continue risate. Tre anni e un remake, quasi due, italiano dopo era lecito aspettarsi molto da Niente da dichiarare?, il secondo film del regista Dany Boon. E invece... e invece il secondo genito non regge il confronto del fratello maggiore. Ce lo si poteva aspettare, certo, ma il crollo verticale del divertimento si sperava che si potesse evitare.
Lo schema è sempre quello di Giù al nord: insofferenze regionali, anzi in questo caso nazionali, stereotipi transnazionali, commedia delle incomprensioni, buoni sentimenti. La storia è ambientata ai tempi di Maastricht e dell'Europa aperta. Le dogane tra Paesi stanno per sparire e tra Francia e Belgio il passaggio sta per diventare libero. I doganieri francesi e belgi sono disperati, soprattutto il vallone Ruben Vandevoorde, interpretato da Benoit Poelvoorde. I litigi con Mathias Ducatel sono all'ordine del giorno ma i due saranno chiamati a cooperare in una squadra sperimentale dell'Europa unita. Problema in più: Mathias è fidanzato con la sorella di Ruben. E Ruben odia i francesi.
Anche Giu' al nord procedeva lungo la sdolcinata strada dell'apprezzamento delle differenze e della ricomposizione degli opposti, ma qui tutta la verve comica si perde per strada. Il ritmo è abbastanza fiacco, e la storia parallela dei contrabbandieri di droga non appassiona. Insomma, sembra che Dany Boon, che comunque conferma la sua bravura attoriale, abbia preferito adagiarsi su un modello che gli aveva assicurato successo e riconoscimenti. Con un problema: stavolta era molto meno ispirato. E soprattutto non sfrutta gli spunti potenzialmente divertenti, come l'uso dell'informatica e dei telefoni cellulari. Certo, anche qui la visione in lingua originale migliorerà la visione, soprattutto nella cena di Capodanno tra Mathias e la famiglia della sua fidanzata.
Insomma, ci si aspettava molto di più di questo film spento e abbastanza trascurabile. Va beh, tutti i biloutes  terranno in mente quel magico gioiellino che è Giu' al nord... dubras!

mercoledì 28 settembre 2011

Oscar: Russia, la candidatura di Mikhalkov è un caso politico

Come anticipato, Terraferma è il candidato italiano agli Oscar. E ora si discute molto sul fatto se si tratti della scelta giusta o meno. Personalmente, la scelta di Habemus Papam mi sarebbe sembrata più appropriata, se non altro per il consenso che il film di Nanni Moretti ha riscosso all'estero. Ma lasciando per un attimo da parte i nostri errori, andiamo a vedere quello che succede in un altro Paese che ha dato tanto alla storia del cinema, la Russia.
La designazione del film da mandare all'Oscar in Russia è diventata un caso politico. Eh sì che i russi hanno tanto problemi a cui pensare in questi giorni, compresa la ricandidatura di Putin per le elezioni che ci saranno questa primavera. Eppure proprio il cinema diventa ancora una volta cartina di tornasole del difficile momento del Paese. La giuria ha scelto Burnt by the Sun di Mikhalkov, terzo capitolo della trilogia cominciata nel 1994 con Il sole ingannatore. Detta così, nessun problema. Mikhalkov è un habituée dell'Oscar, che ha vinto proprio con Il sole ingannatore nel 1995. Ha anche vinto a Venezia nel 1991 con Urga, e avrebbe meritato il Leone d'oro anche nel 2007 con 12. Peccato che già il secondo capitolo della saga avesse preso una piega spaventosamente patriottica, che pare essere stata ancor più accentuata in questo terzo capitolo.
Burnt by the Sun è stato stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico ma ha ottenuto cinque voti su otto nella commissione dove, udite udite, sedeva lo stesso Mikhalkov. Un conflitto di interessi quantomeno curioso. Il presidente Vladimir Menshov, già premio Oscar nel 1981 col suo Mosca non crede alle lacrime si è rifiutato di firmare il verbale della seduta, criticando pubblicamente il verdetto, a suo dire manovrato con loghce clientelari dal potente collega. Mikhalkov in effetti ha guadagnato una potenza a dir poco incredibili: è il presidente dell'Unione Cineasti Russi e per il suo ultimo film ha ottenuto uno dei finanziamenti governativi più costosi del cinema russo, pari a 55 milioni di dollari, anche se l'interessato dice che sono 40. Quanta differenza con le difficoltà a girare un film che aveva un genio della pellicola come Andrej Tarkovskij, sabotato a più riprese dal regime sovietico. Resta così escluso dalla corsa alle statuette, oltre a Elena di Andrej Zvjagintsev (premio della giuria a Cannes nella sezione Un Certain Regard), l'erede prediletto proprio di Tarkovskij, vale a dire quel Sokurov che ha incantato Venezia con il suo Faust.
Insomma, la decisione della commissione sembra proprio un delitto. Vedremo se prima o poi un Dostoevskij penserà anche a un castigo.

Lorenzo Lamperti

martedì 27 settembre 2011

Oscar: il candidato italiano sarà Terraferma

Habemus candidato. Le riserve saranno sciolte solo domani, mercoledì 28 settembre, ma il film che concorrerà agli Oscar 2012 sembra già deciso: è Terraferma di Emanuele Crialese. Ebbene sì, secondo le indiscrezioni lo strafavorito Nanni Moretti pare che dovrà restare a guardare. Il suo Habemus Papam, che ha ben figurato al festival di Cannes, dovrebbe perdere la corsa con il Leone d'argento di Venezia.
La giuria, che si riunirà domani presso l'Anica, è orientata sul nuovo film del regista di Nuovomondo. I registi Marco Bellocchio e Luca Guadagnino, le produttrici Francesca Cima, Tilde Corsi e Martha Capello, il distributore Valerio De Paolis, la presidente dei cine-esportatori italiani Paola Corvino, il giornalista Niccolò Vivarelli e Nicola Borrelli per il ministero dei Beni culturali: ecco l'elenco dei giurati che hanno visionato le otto opere proposte. Corpo celeste di Alice Rohrwacher, Notizie degli scavi di Emidio Greco, Vallanzasca di Michele Placido, Nessuno mi può giudicare di Massimiliano Bruno, Tatanka di Giuseppe Gagliardi e Noi credevamo di Mario Martone erano gli altri candidati. Ma la partita era tutta tra Moretti e Crialese, anche se quasi la totalità era convinta che fosse il buon Nanni a giocarsi la possibilità di andare a Hollywood.
E invece, pare aver avuto la meglio la storia sull'immigrazione di Crialese. Per sapere se entrerà nella cinquina finale dei candidati all'Oscar come miglior film straniero bisogna aspettare il 24 gennaio 2012, quando l'Academy annuncerà le candidature. Ultimo appuntamento il 26 febbraio con la cerimonia di premiazione presentata da Eddie Murphy. Allora potrebbe esserci un altro film "italiano", This Must Be The Place di Paolo Sorrentino, girato negli Usa in inglese e che perciò potrebbe concorrere per le categorie principali. Tra l'altro la Weinstein, quella de Il discorso del re, ha appena acquistato la pellicola e quindi le chance, almeno per una nomination a Sean Penn come migliore attore, aumentano.
Molto più difficile e impervia sarà la strada per Terraferma, se Terraferma sarà, vista l'ampia concorrenza. E chissà se almeno quest'anno i giurati avranno azzeccato la scelta del film da candidare. Negli utlimi tre anni avevano commesso almeno due errori clamorosi, escludendo prima Il divo a beneficio di Gomorra e poi L'uomo che verrà di Giorgio Diritti a favore de La prima cosa bella di Paolo Virzì. L'Italia è il Paese con più statuette per il miglior film straniero. Se dobbiamo morire, che almeno non sia un suicidio.

lunedì 26 settembre 2011

Carnage, il massacro di Polanski

Faust di Sokurov deve essere davvero un capolavoro. Eh sì, perché vedendo Carnage non si riesce a capire come possa non aver vinto l'ultimo festival di Venezia. Ispirandosi all'opera teatrale "Il Dio del massacro" di Yasmina Reza, qui co-sceneggiatrice, Roman Polanski torna ai più alti livelli della sua produzione cinematografica.
Carnage è un dramma da camera, nel vero senso della parola. Tutto il film si svolge all'interno di una stanza, il salone della coppia Jodie Foster-John C. Reilly, che "ospitano" un'altra coppia, quella composta da Cristoph Waltz e Kate Winslet. L'obiettivo è trovare un accordo pacifico dopo che il figlio dei secondi ha picchiato quello dei primi con un bastone. Prima e dopo il corpus del film, i due quadri esterni che ritraggono i due bambini in campo lunghissimo. Una lezione di cinema e non solo, quella dell'autore di Rosemary's Baby, che indaga sulle meschinità, vizi e invidie degli uomini e donne del nostro tempo.
Tutto è giocato sulla ripetizione e la complicità con gli attori, tutti in stato di grazia. Il film gioca continuamente su due livelli paralleli: il parlato, l'esplicito, che invade tutta la storia in un flusso continuo, e il non detto, l'implicito, che arriva allo spettatore costretto a guardare tra le pieghe dell'immagine, tra il suono delle parole. I tic dei protagonisti tornano prepotenti e caratterizzano al massimo i quattro. Lo spettatore sa tutto di loro, pur non sapendo nulla. Li si vede solo in azione nel momento, in divenire, ma sembra di conoscerne passato e presente. Addirittura il futuro. Anche se prima e dopo il loro "civile" incontro non c'è nulla. Solo i loro figli.
Sopra le righe Jodie Foster, la paladina dei diritti civili che scrive libri sull'Africa e la fame nel mondo e non si perde una mostra d'arte. Divertentissima Kate Winslet, frustrata donna in carriera trascurata dal marito che prima vomita sul prezioso tavolo della Foster e poi si ubriaca col whisky. Efficace John C. Reilly, sempliciotto che si sforza di sembrare culturalmente attivo per compiacere la moglie, ma che poi lascia per strada di nascosto il criceto della figlia. Straordinario Cristoph Waltz, avvocato senza scrupoli che sputa sentenze e sta sempre al telefono.
Incredibile come un film costruito in questo modo riesca a essere sempre più appassionante, mano a mano che si scoprono le piccole amoralità, le grandi contraddizioni e l'impossibilità di comunicare degli esseri umani. E non credete a chi vi dice: potrebbe essere uno spettacolo di teatro. Carnage è un film e rappresenta al meglio l'arte cinematografica. Se la macchina da presa non si fa notare non significhi che non ci sia e non sia sapientemente manovrata. E poi a teatro come si potrebbe leggere la rabbia sul volto di Jodie Foster, la frustrazione su quello della Winslet, la meschinità in quello di Reilly e la strafottenza su quello di Waltz?

Lorenzo Lamperti

mercoledì 21 settembre 2011

Super 8, l'.E.T. 2.0

Ohio, 1979: sei ragazzini sono alle prese con la realizzazione di un film in super 8 da presentare a un concorso per giovani talenti. Una notte, seguendo le direttive del piccolo regista, i protagonisti sfuggono di soppiatto dalle loro camerette per andare incontro a un’incredibile avventura: organizzando il set sulla banchina della stazione si trovano infatti ad essere involontari testimoni di un colossale incidente ferroviario, in seguito al quale eventi inquietanti iniziano a susseguirsi nella cittadina, gradualmente invasa dalle forze militari impegnate ad insabbiare un oscuro mistero.
Prodotto da Spielberg e girato da J.J.Abrams, creatore della pluripremiata serie tv Lost, Super 8 è una vera e propria operazione nostalgica che ricrea ad arte il mood dei film generazionali degli anni ‘80.
Con lo sguardo ben fisso sul passato e sulle pellicole di Spielberg che hanno fatto la storia del cinema, Abrams recupera brillantemente e con mano sapiente vecchi modelli narrativi e ci racconta un’America che non c‘è più, in cui lo sguardo narrante dei giovani protagonisti è ancora uno sguardo ingenuo e sognante; ci racconta , con semplicità e freschezza, una storia d’avventura, di amicizia e d’amore in cui i tredicenni sanno ancora entusiasmarsi per i razzi e per i trenini, per le avventure e le ragazzine dai capelli biondi.
Protagonista indiscusso della pellicola l’alieno che, come il suo precursore ansioso di telefonare a casa, ha conosciuto il lato peggiore della razza umana e non vede l’ora di ritornare sul suo pianeta. A differenza dell’alieno verde dal dito luminoso però, questo non ha bisogno della protezione dei ragazzini, anzi, reagisce con violenza ai soprusi mascherati da ricerche scientifiche diventando una minaccia per tutta la popolazione. Pur nella sua furia, mostra però di avere più cuore dei suoi aguzzini e, di fronte al candore infantile, sfodera uno sguardo inatteso e nascosto, sgranando occhi incredibilmente simili agli specchi enormi del piccolo E.T.
Super8 è una pellicola che, bisogna riconoscere, non reinventa e non aggiunge niente, e nemmeno ci prova: riesce perfettamente proprio nel rimanere fedele al suo spirito nostalgico e risulterà davvero irresistibile per tutti i bambini degli anni ’80, cresciuti a suon di Goonies e Stand By Me.
E forse, ci auguriamo, anche per quelli del nuovo millennio.
Elisa Fontana

sabato 10 settembre 2011

Venezia, i vincitori. Ecco chi porterà a casa il Leone d'oro (forse)

Ormai ci siamo, anche l’edizione 2011 del festival di Venezia sta per passare agli annali. Si attende solo la consegna del Leone d’oro in Sala Grande nella giornata di sabato 10 settembre. Come sempre è già scattato il toto-Leone. Proviamo a vedere chi potrebbe spuntarla.
Partiamo da due fondamentali presupposti: primo, con questa edizione scade il mandato di Marco Muller e, secondo, il presidente della giuria è l’eccentrico regista americano Darren Aronofsky. Cominciamo da Muller e andiamo a vedere quali sono i leoni del suo mandato. Si comincia con Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh (2004), poi ecco I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee (2005), Still Life di Jia Zhang Ke (2006), Lussuria di Ang Lee (2007), The Wrestler di Aronofsky (2008), l’israeliano Lebanon (2009) e Somewhere di Sofia Coppola (2010). Un complesso abbastanza eterogeneo ma comunque tutti film piuttosto d’autore. Spiccano i tre leoni cinesi con addirittura la doppietta di Ang Lee, anche se uno dei suoi due film è girato negli States. Si sa che la passione di Muller è il cinema cinese, ma Still Life e Lussuria non sono opere all’altezza. Poi abbiamo due americani, un britannico e un israeliano. Azzeccati Brokeback Mountain e The Wrestler e azzecatissimo Lebanon per la sua qualità cinematografica, molto meno Vera Drake e soprattutto il borioso e inutile Somewhere. Che cosa manca nell’elenco? Un film italiano. È il desiderio del ministro Galan, quello di veder vincere un film nostrano per ridare lustro e importanza alla Mostra. Se Muller ambisce alla riconferma del mandato deve sperare che la giuria premi un italiano.
La giuria, appunto. Di solito si tende a identificare il verdetto con il presidente e quasi mai è uno sbaglio. Basti ricordare due casi celebri: Wim Wenders che premia un americano a Venezia dopo tempo immemore (proprio Aronofsky con The Wrestler) confermando la sua passione a stelle e strisce e poi Tim Burton che a Cannes 2010 consegna la Palma al thailandese Apichatpong Weerasethakul per il tedioso Zio Boonmee eccetera eccetera. Cosa piace ad Aronofsky? Il cinema di ricerca e soprattutto perturbante. I nomi che più si accostano al regista di Black Swan sono certamente David Cronenberg con il suo A Dangerous Method e Sokurov con il suo Faust. Ma attenzione, negli ultimi giorni un regista in concorso potrebbe aver pronunciato la parola magica: “Il mio unico riferimento cinematografico è David Lynch. Quando vidi Eraserhead pensai che fosse la cosa più bella che avessi mai visto”. Firmato Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, fumettista ed esordiente autore de L’ultimo terrestre. Aronofsky adora Lynch ed è debitore del suo cinema. Basti vedere l’esordio di Aronofsky, Pi greco, un Eraserhead a venti anni di distanza.
E allora ecco che i sogni di Galan, l’ambizione di Muller e il gusto di Aronofsky potrebbero conciliarsi nella scelta di Gipi. Un Leone d’oro a un alieno. Di certo non si può dire che il pensiero  non sia suggestivo. Ma attenzione, c'è chi parla di Shame di Steve McQueen e soprattutto di Carnage di Roman Polanski. Quella di Polanski sarebbe forse la scelta più popolare e mediatica della giuria, e allora a prescindere della qualità, che si dice ottima, del film potrebbe essere questa la scelta finale. Ancora qualche ora e vedremo.


Milano Film Festival: il cinema è aperto?

Punto di domanda o no? Se lo chiede il Milano Film Festival, ormai stabilmente uno degli appuntamenti festivalieri più importanti in Italia e non solo. Siamo alla sedicesima edizione e il Mff è segnato sul calendario di tutti i milanesi che abbiano una minima confidenza o interesse con e verso la settima arte.
Dal 9 al 18 settembre ci sarà una pacifica invasione di celluloide nel capoluogo lombardo. Gli organizzatori si aspettano un ulteriore incremento di pubblico, dopo che nel 2010 si è registrato il record di 120 mila biglietti staccati. “Siamo rimasti un po’ underground senza volerlo, è giunto il momento di uscire allo scoperto” dice Beniamino Saibene, ex direttore e ora produttore del festival insieme a Lorenzo Castellini. Il Mff vuole avanzare di livello e anche per questo moltiplica le sedi. Dalla classica sala del Teatro Strehler al Teatro Studio, ora sono stati conquistati anche dei veri e propri cinema: Rosetum, Anteo, Auditorium San Fedele. E poi c’è uno schermo anche al Parco Sempione, dove sono stati allestiti 900 posti a sedere. Il Mff si allarga a macchia d’olio e il concorso si divide come sempre in due sezioni: lungometraggi e cortometraggi. Di qui nel corso degli anni sono transitate opere di primo livello. Tutte anteprime nazionali, film quasi sempre indipendenti, è difficile capire prima quale potrebbe essere quella che fa il botto. Ma una chence va data a tutti, perché la selezione è sempre di grande qualità.
Dopo aver ospitato Jim Jarmusch nel 2010, ora ecco una retrospettiva su Jonathan Demme, il regista de Il silenzio degli innocenti e tanti altri thriller. E poi non manca mai la musica: ogni sera un concerto sui gradini dello Strehler.

Venezia, facciamo il punto della situazione

Ultimo giorno di festival, tempo di riscontri, bilanci, riassunti, compendi e chi più ne ha più ne metta. La seconda parte di rassegna è filata via tra fischi, ululati, applausi, standing ovation, accuse e paparazzate vere o presunte.
Puntuali come la rituale visita dal dentista, anche nella 68esima edizione del festival di Venezia c’è stato spazio per il film italiano, più o meno brutto, dileggiato dalla critica in sala durante la proiezione stampa. Di solito tocca ai film che si prendono troppo sul serio. Celebre il caso di due anni fa con Il grande sogno di Michele Placido con tanto di Goffredo Fofi che urla “Vergogna” ululando e alzando in aria il bastone che usa per camminare uscendo dalla sala. E il buon Goffredo aveva le sue ragioni… Una doppietta quella di Placido, visto che qualche anno prima si era preso pernacchie per Che sarà di noi. Quest’anno la dura legge del fischio è toccata a Cristina Comencini e al suo Quando la notte, dramma sentimentale e materno con calde scene tra Filippo Timi e Claudia Pandolfi. Chi era presente in sala racconta di risate di scherno, l’arma più spietata a disposizione di un critico cinematografico. La Comencini non l’ha presa bene e ha parlato di “violenza, complotto: gli uomini non possono capire”. D’accordo, le reazioni saranno state pure esagerate da parte della critica durante la visione del film ma uno è pure libero di dire se trova un’opera scadente.
Dall’altra parte del guado invece la strana coppia Friedkin/Sokurov. L’autore de L’esorcista, ormai alle soglie degli 80 anni, ha portato in Laguna Killer Joe, una storia del tutto auto convenzionale. D’altra parte, Friedkin non è mai stato prevedibile e ha ancora la forza di ricercare storie originali come questa dove recita l’ottimo Emile Hirsch. Il grande regista russo, invece, presenta la sua opera forse più ambiziosa dai tempi di Arca russa, ovvero la sua riduzione cinematografica del Faust di Goethe. Un’opera magniloquente e visionaria, e come sempre accade con i film di Sokurov si è immersi in un altro spazio di visione e percezione rispetto a quello consueto. C’è stato poi Gipi con il suo L’ultimo terrestre, ritratto di un’Italia futura e così simile a quella in cui viviamo.
In definitiva, si può dire che il programma di questa edizione sia stato ricco e di qualità come raramente è accaduto negli ultimi anni. In attesa di capire se quello di Muller sia un addio o un arrivederci, quantomeno il buon Marco è riuscito nel lasciare un buon ricordo e a gettare un ponte per il futuro. Chissà se sarà lui ad attraversarlo.

mercoledì 7 settembre 2011

Milano, Svizzera. Ecco i Pardi di Locarno

Stavolta ruggiscono da soli. I Pardi di Locarno, dopo anni di convivenza forzata con la "Panoramica" di Venezia si mettono in proprio e guadagnano un loro spazio esclusivo. Da domani sette titoli in visione tra cinema Apollo e Umanitaria.
L'apertura è col botto: subito Super 8, il fanta thriller prodotto da Steven Spielberg e diretto da J. J. Abrams, il papà di Lost. Il pubblico milanese potrà vedere in anteprima nazionale questa storia su un gruppo di ragazzi cinefili che filmano per caso un disastro ferroviario dai risvolti paranormali, il tutto al cinema Apollo (ore 19,50 e 22,10). Poi via a tutto il resto, che è un resto generoso e di qualità. Ecco dunque l'esordio dietro alla macchina da presa dei gemelli torinesi De Serio con Sette opere di misericordia e il rumeno Best Intentions, premiato a Locarno per la regia di Adrian Sitaru e per l'interpretazione maschile del protagonista Bogdan Dumitrache. Sitaru, tra l'altro, è l'autore di uno dei più bei film di Venezia edizione 2008, dove il suo Hooked trovò un grande favore di critica.
C'è anche l'israeliano Nadav Lapid con il film politico Policeman, tra l'altro premio speciale della giuria al festival svizzero, e l'opera libanese Beirut Hotel. Per vedere qualche noto si può assistere a The Loneliest Planet di Julia Loktev con Gael Garcia Bernal. E poi non può mancare il Pardo d'oro, Abrir puertas y ventanas dell'esordiente svizzero-argentina Milagros Mumenthaler.

martedì 6 settembre 2011

Venezia 2011, un festival col buco

Il vecchio Palazzo del Cinema di Venezia
I giornalisti, gli attori, i registi, gli artisti e chi più ne ha chi ne metta senza dimenticare i semplici visitatori della 68esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia si ritrovano di fronte a uno spettacolo desolante: il cratere di quello che dovrebbe essere il nuovo Palazzo del Cinema.
Altro che cantiere, quello è un'esposizione di amianto a cielo aperto. Ma andiamo con ordine. Nel settembre 2005 viene bandito un concorso internazionale di progettazione per il nuovo Palazzo del Cinema. Lo vince il gruppo 5+1AA&Ricciotti. Il progetto è ambizioso e avveneristico: uno spettacolare manufatto a forma di conchiglia che si affaccia sul mare che diventerebbe così la sala principale del festival con una capienza di 2400 posti.
La ricerca dei soldi però, inizia solo dopo il bando di concorso. E la copertura finanziaria non è facile da trovare. Per far saltare fuori i fondi, nel 2007 il ministro Rutelli inserisce la costruzione del Palazzo tra le opere straordinarie. La data di consegna doveva essere il 2011, in tempo utile per la celebrazione dei 150 anni di Unità d'Italia.
Il 2011 e oggi e nel frattempo alla luce del sole arriva una salutare dose di amianto. Il cratere diventa piano piano più grande e l'impressione è quella di un eterno provvisorio che non può fare bene alla reputazione del festival. Nel progetto sono già stati spesi circa 30 milioni di euro, tra l'altro tutti soldi pubblici, ma del Palazzo a forma di conchiglia manco l'ombra. Anzi, i lavori si sono proprio interrotti.
E mentre fioccano le accuse reciproche tra Rutelli e Galan: "Il buco l'hai fatto tu" "No l'hai fatto tu" il pubblico nazionale e internazionale si aggira sgomento intorno alle recinzioni. Dentro, il vuoto.

Lorenzo Lamperti

lunedì 5 settembre 2011

Venezia, giorno 5: Film dell'altro mondo

Incontri cinematografici del quarto tipo. Il cinema italiano non è conosciuto nel mondo per essere all'avanguardia sui generi. O almeno non lo è più. Se qualche decennio fa Sergio Leone e Mario Bava riuscivano nell'impresa di diventare quasi mainstream con i loro western e horror, oggi chi ne fa le veci fa molta fatica.
I Manetti bros
Innanzitutto per la povertà di mezzi. Oggi girare un film di genere in Italia significa direttamente autoemarginarsi a un pubblico di nicchia. E i soldi per girare è già tanto se arrivano, quando arrivano. E' così una piacevole sorpresa accorgersi che invece nella 68esima edizione del festival di Venezia arrivano due film italiani sugli alieni. Un po' di vecchia sana Science Fiction non guasta, soprattutto nel panorama desolanetemente omologato del cinema italiano.
Ed ecco spuntare fuori L'ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti e L'arrivo di Wang dei Manetti bros. Diversi, eppure così simili gli autori di queste due pellicole. Stessa generazione, stessa passione per i fumetti e i romanzi di fantascienza. Magari Pacinotti, in arte Gipi, amava cose un po' ricercate e i Manetti quelle un po' più pop come i fumetti Marvel, ma comunque l'indirizzo culturale è quello. Gipi e i Manetti si ritrovano a Venezia.
Gipi è un affermato fumettista e L'ultimo terrestre, che racconta un'invasione aliena, è il suo primo film da regista. Si ritrova direttamente nella selezione ufficiale del festival ed è uno dei tre italiani in concorso. I Manetti bros, invece, approdano a Venezia dopo tanta gavetta e parecchie soddisfazioni. Il loro ultimo film, Piano 17, aveva fatto parlare di sé per il bassissimo budget con il quale era stato girato. Eppure era un signor thriller. Questa volta, con L'arrivo di Wang i Manetti bros si sono lasciati andare nella sperimentazione di effetti visivi sofisticati, grazie alla collaborazione con la Palantir Digital, studio all'avanguardia nella grafica 3d, anche se è un effetto ancora poco usato in Italia. I Manetti, i veri outsider della Mostra, non si sentono autori e il loro film è atipico rispetto a quelli che abitualmente si vedono al Lido.
Gipi e i Manetti uniti per la riscoperta dei generi in Italia. E tra tanti alieni, c'è anche un altro film italiano che parla di Cose dell'altro mondo, firmato da Francesco Patierno e recitato tra gli altri da Diego Abatantuono e Valentina Lodovini. Ma lì gli alieni sono altri...

Hanna, la fiaba glaciale di Joe Wright

di Elisa Fontana
Si apre in un’atmosfera glaciale da fiaba nordica il nuovo film di Joe Wright, che abbandona la sua ormai costante cifra stilistica, la trasposizione da opere letterarie (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, Il solista), e sceglie di cimentarsi in un genere apparentemente molto distante, quello del film d’azione.
Hanna (Saorsie Ronan), giovane figlia di un agente della Cia (Eric Bana), è nata e cresciuta tra i ghiacci delle foreste svedesi ed è stata addestrata per eccellere in tutto, dalle doti fisiche e di combattimento alle conoscenze intellettuali. Ma, come recita Bana in una battuta del suo personaggio, i figli crescono, e Hanna è ormai pronta per scoprire il mondo vero, abbandonare la glaciale immobilità della foresta e affrontare la sua antagonista: l’algida Marissa Wiegler (Cate Blanchett), che sguinzaglierà sulle sue tracce un manipolo di spietati assassini.
Wright si applica con impegno alla riuscita di un film di genere per lui inconsueto, curando il suo prodotto nei minimi dettagli e rendendolo proprio, giocando con gli stilemi letterari che gli sono familiari e introducendo riferimenti culturali di vario tipo.
E’ il modello della fiaba a farla indubbiamente da padrone, ribadito più volte dal costante riferimento ai fratelli Grimm. Il valore allegorico di questo modello permette al regista di giocare nella giusta misura con elementi simbolici, e adattare l’ immagine a vari livelli di significato: la foresta vera e quella metaforica, costituita dal mondo crudele in cui Hanna deve sopravvivere; il ‘lupo’ Marissa, dagli occhi glaciali di Cate Blanchett, che da cacciatore diverrà preda; il mondo alla rovescia della casa dei Grimm, in cui la fiaba si trasforma in un racconto dell’orrore. Contribuisce a questo gioco ben riuscito anche la colonna sonora originale dei Chemical Brothers, che da diegetica diventa extradiegetica e, alternativamente, coinvolge, confonde e inquieta.
Come in un Buildgsromance, Hanna affronta il mondo per scoprire l’ignoto e per crescere, cosa che, per lei, significa prima di tutto sopravvivere. E allora ecco entrare in scena tutte le risorse più tipiche e stereotipate del film d’azione: dagli inseguimenti, alle forze inesauribili dell’eroina, sino ad arrivare alla perfidia monolitica dei cattivi; espedienti, però, qui giustificatissimi, vero colpo di genio di Wright, dal riferimento alla fiaba.
Un prodotto ben riuscito quindi, dal ritmo incalzante, che riesce perfettamente a fondere generi diversi mantenendo il meglio di entrambi, senza incappare nell’elevato rischio di riuscire pretenzioso.

domenica 4 settembre 2011

Venezia, giorno 4: Migranti di successo

Al Pacino in versione Tony Montana nel 2011
Più che i suoi anni, 71, suonano gli applausi. Al Pacino si gode l'ennesima giornata trionfale della sua splendida carriera. Venezia è andata in deliquio per lui dopo aver assistito alla proiezione di Wild Salome, l'opera tratta da Oscar Wilde che segna il ritorno del vecchio Al dietro alla macchina da presa.
Dopo Riccardo III, Pacino si butta in un'altra impresa cinematografica: recuperare la figura della bella figlia di Erodiade, qui interpretata dalla rossa Jessica Chastain, reduce dal successo di The Tree of Life, malickiana Palma d'oro all'ultimi festival di Cannes. Alla conferenza stampa introdotta direttamente da Marco Muller, Al Pacino ha innanzitutto ricevuto il premio alla carriera Jaeger-Le Coultre e poi ha spiegato i motivi del suo ritorno da regista: "Volevo gettare una luce su Oscar Wilde. Per gli americani la cultura e la letteratura europee sono vissute come qualcosa di estraneo". La stessa cosa l'aveva fatta 15 anni fa con Shakespeare ma neppure Riccardo III aveva suscitato quegli entusiasmi di Wild Salome.
Al Pacino è parso in ottima forma, e questo sembra un periodo molto positivo per l'attore di tanti grandi film da Il Padrino a Carlito's Way. Solo qualche settimana fa era stato avvistato alla festa per l'uscita in Blu Ray di Scarface. Il 71 enne Al era vestito alla Tony Montana, il protagonista del celebre film di Brian De Palma datato 1983. 
E se Al Pacino, viste le sue origini, si può definire un migrante di successo, anche se non di prima generazione, giusto che la proiezione di Wild Salome capiti nello stesso giorno di quella di Terraferma di Emanuele Crialese. Anche qui si parla di migranti, anche se purtroppo non di successo. Terraferma racconta una terra, la Sicilia, terra d'origine sia di Crialese sia di Al Pacino. In una piccola isola si intrecciano i destini dei suoi abitanti, toccati dagli arrivi dei clandestini, provenienti dal Nord Africa, e in particolare quelli di due donne, un'isolana e un'immigrata. Crialese torna sulle tematiche del suo film precedente, Leone d'Argento a Venezia nel 2006, Nuovomondo. Se lì c'era una ricostruzione storica, con l'emigrazione degli italiani in America, qui si raccontano quasi fatti di cronaca, anche se Crialese dice: "La cronaca era tutto quello che sapevamo di dover evitare, un bagaglio da rielaborare e trasformare, per uscire dal linguaggio televisivo e cronachistico". 
Fortuna o miseria, alla fine è tutta questione del caso. O di latitudine.

sabato 3 settembre 2011

VENEZIA, Giorno 3: Cronenberg applaudito, Bellucci nuda

Il bello di un festival come Venezia è che in una giornata si può vedere di tutto, forse anche troppo. Le scelte, spesso angoscianti, su che cosa vedere sono il sale del festival. Mettere crocette e asterischi sul programma è uno dei passatempi più goderecci di un cinefilo. Capita così, che nel giorno numero 3 dell'edizione numero 68 della Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia si possa vedere il nuovo, attesissimo, film di David Cronenberg e scorgere Monica Bellucci in nudo integrale nel film di Louis Garrel.
Ma il destino dei due film pare essere molto diverso. Applausi e ovazioni per A Dangerous Method, l'opera che segna il ritorno sul grande schermo dell'autore, tra gli altri, di Videodrome, La mosca, M Butterfly, Crash, eXiSteNz e A History of Violence. Era da La promessa dell'assassino, anno di grazia 2007, che Cronenberg non faceva un film. A Dangerous Method sembra però ripagare l'attesa dei suoi numerosi estimatori, raccontando i rapporti tra Sigmund Freud, Carl Jung e la bella Sabina Spielrein, amante dell'uno e allieva dell'altro. Cronenberg ora sembra già il favorito per il Leone d'oro, considerando anche che il presidente di giuria Darren Aronofsky lo ammira molto. Viggo Mortensen, ancora con Cronenberg dopo A History of Violence e La promessa dell'assassino e Carl Fassbender sono una garanzia in un cast completato da Keira Knightley e Vincent Cassel.
La moglie del tenebroso francese, com'è noto Monica Bellucci, ha invece una sorte diversa dal successo del film di Cronenberg. Un été brulant è stato fischiato: pochi applausi e tanti buu. A nulla è servito il nudo integrale della Monica nazionale, che arriva pochi minuti dopo l'inizio del film. Nonostante non si trattasse di una prima assoluta (del nudo della Bellucci si intende) si era molto parlato e fantasticato intorno a una scena descritta come bollente. E invece si racconta di una posa statuaria, pudica, che non ha scaldato gli umori dei presenti in sala. A parte questo, il film di Garrel è stato criticatissimo. Eh va beh, non tutte le Bellucci escono col buco.

venerdì 2 settembre 2011

L'AGENDA DEL CINEMA, Tutti i film del week-end (2-4 settembre)

Gli appuntamenti del cinefilo milanese

Venerdì 2 settembre
  • Cinema in piazza. Super Size Me, Morgan Spurlock (2004). Ore 21,30, Piazza Città di Lombardia
  • Arianteo Porta Venezia. The Next Three Days (Haggis). Ore 21,30, Bastioni di Porta Venezia 3.
  • Arianteo Umanitaria. Un gelido inverno (Debra Granik). Ore 21,30, via San Barnaba 48.
  • Arianteo Conservatorio. Potiche (Ozon) e concerto "France". Ore 21, via Conservatorio 12.
Sabato 3 settembre
  • Cinema in piazza. Viaggio al centro della terra, Eric Brevig (2008). Ore 21,30.
  • Arianteo Porta Venezia. Harry Potter e i doni della morte parte II. Ore 21,30.
  • Arianteo Umanitaria. Porco rosso (Miyazaki). Ore 21,30.
  • Arianteo Conservatorio. Benvenuti al sud e concerto "Jazz...jazz e ironia". Ore 21.
Domenica 4 settembre
  • Cinema in piazza. La musica nel cuore, Kirsten Sheridan (2007). Ore 21,30.
  • Arianteo Porta Venezia. C'è chi dice no (Avellino). Ore 21,30.
  • Arianteo Umanitaria. The Killer Inside Me (Winterbottom). Ore 21,30.
  • Arianteo Conservatorio. Noi credevamo (Martone) e concerto "Noi credevamo... e crediamo ancora". Ore 21.

I Kennedy, quando la tv diventa cinema

Ne avevamo parlato già qualche mese fa, quando era in prima visione negli Stati Uniti. Ora che ne abbiamo visto la prima puntata anche in Italia possiamo riparlarne. Si tratta delle mini serie tv più importante dell'anno, The Kennedys.
Mercoledì 31 agosto, La7 ha cominciato a mandare in onda gli otto episodi della prima stagione del serial più chiacchierato degli ultimi tempi. Il 31 agosto erano in programma i primi tre episodi, il 7 e il 14 settembre sarà la volta degli altri cinque. E anche se siamo solo all'inizio, già si può dire che I Kennedy non riguardano solo gli appassionati di tv, ma anche quelli di cinema. Sì, perché la serie rientra in quella tradizione, molto made in Usa, che vuole le serie tv qualitativamente adattate al cinema. Tutto il contrario di quello che succede in Italia, dove purtroppo è il cinema ad adeguarsi alla qualità, scadente, delle serie tv. Così, da noi accade che gli attori delle fiction finiscano al cinema, affermando l'invasione televisiva nel campo cinematografico. Negli Usa invece sono spesso grandi attori già affermati che si prestano alla tv. E i risultati sono diametralmente opposti.
The Kennedys ha il coraggio di affrontare uno degli argomenti più spinosi dell'America del dopoguerra: la famiglia Kennedy. E lo fa senza riguardo. Greg Kinnear, il volto di Jfk, non è il solito eroe in costume delle fiction nostrane, è un uomo, prima ancora che il Presidente degli Stati Uniti. Con le sue forze e, soprattutto, le sue debolezze. I Kennedy non edulcora, racconta. Scava. Sembra scavare direttamente sui volti di protagonisti in grande forma: dall'immenso Tom Wilkinson nei panni del padre di Jfk a Barry Pepper, ovvero il fratello Bobby, fino a Katie Holmes, la moglie di Tom Cruise che interpreta al meglio Jacqueline Bouvier.
Dalle simpatie del padre per le mosse di Hitler ai metodi non proprio onesti con cui Jfk si fa largo nella politica, il regista Jon Cassar ci va giù duro e dipinge un mondo di potere e di invidie. Di brame e di voglie. E la voglia arriva fino al pubblico di vedere come la serie va avanti. E di sperare che qualcuno in Italia prenda appunti.

Lorenzo Lamperti

giovedì 1 settembre 2011

VENEZIA, Giorno 2: Madonna che festival

Like a Virgin. Dopo anni di speculazioni intellettuali e filosofiche, tanti autori e poche star, a Venezia 68 sembra di rivedere tutto come la prima volta. Ed ecco la cascata di stelle che molti anelavano da tempo, anche quei cinefili imbronciati che passano davanti all'Excelsior e alla Sala Grande e fingono di non buttare l'occhio sui red carpet della Mostra.
Giorno due del festival, due i pezzi grossi in programma. Uno in carne e ossa, l'altro in sola celluloide. Stiamo parlando di Madonna e Roman Polanski. Una strana coppia, si potrebbe dire, anche Walter Matthau e Jack Lemmon. O forse meno strana di quello che si possa pensare, viste le recenti visittudini del regista mitteleuropeo, già padre di Rosemary's Baby. Vicissitudini che hanno impedito al buon Roman di arrivare al Lido per presentare il suo ultimo film, Carnage. Polanski, dopo il rilancio in grande stile arrivato con The Ghost Writer, da noi brillantemente tradotto come L'uomo nell'ombra, si lancia in un dramma da camera politicamente scorretto, tratto dalla pièce Il dio della carneficina di Yasmina Reza. Un film che, almeno ai più, ha fatto ridere. Grazie anche a un cast che si potrebbe anche definire sontuoso: la nuova Wonder Woman Kate Winslet (ha appena salvato la madre del boss della Virgin da un incendio), Cristoph Waltz (il magnifico cattivo di Bastardi senza gloria), John C. Reilly e Jodie Foster.
Ride meno Lady Ciccone, che con il suo W.E. non ha scaldato i cuori di pubblico e critici. Un film dove Madonna si avventura nell'impresa di riablitare Wallis Simpson, l'amore assoluto di Edoardo VIII oltre che, a quanto pare, di Ribbentrop e Galeazzo Ciano. Insomma, un bel caratterino anche se la regista smentisce: "Non è vero niente, ho fatto delle ricerche e lei non è mai stata né con l'uno né con l'altro". Se lo dice lei ci possiamo anche credere, ma il problema è che nessuno sembra credere alla sua carriera cinematografica. Oddio, si fosse fermata al ruolo di attrice magari... ma regista? Madonna...


Venezia, giorno 1: l'importanza di chiamarsi George

"Temo che si sbagli". Eh no caro George, che non sbagliamo. Venezia ti adora, e tu adori (forse) Venezia. Inizia una nuova Mostra Internazionale d'arte cinematografica, la 68esima per l'esattezza, e arriva subito la conferma di un amore, quello tra il Lido e George Clooney.
Il bel George ha aperto il festival, dopo la preinugurazione di Ezio Greggio, con il suo thriller politico Le idi di marzo e si è portato subito a casa una discreta dose di applausi. "Non è un film politico" ha detto lui in conferenza stampa "ma sui temi morali". Ma intanto sono già partite le polemiche, soprattutto negli Usa, per un film che non fa sconti ai democratici, ma anzi ne svela intrighi e bassezze. "Onesto fino all'intransigenza", così è stato definito il nuovo lavoro registico di Clooney, avvezzo a opere dal respiro di denuncia sociale: basti ricordare Syriana e per certi versi anche il capostipite, Good Night and Good Luck. Clooney, sprovvisto di Canalis ma dotato di un nutrito cast insieme a lui sul tappeto rosso: Ryan Gosling, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei e soprattutto Evan Rachel Wood dovrebbero aver fatto passare la nostalgia dell'ex valletta di Controcampo ai fotografi in Laguna.
Il comasco George, comunque, ci aveva già pensato dalla conferenza stampa a conquistare tutti, presentandosi disteso e sorridente, sciorinando una battuta dopo l'altra: ""Perché ho avuto questi attori meravigliosi? Avevo delle loro foto compromettenti. Se mi è piaciuto fare il regista di me stesso? Andava proprio bene quella sequenza, bravo George!''. Stavolta nessuno ha fatto riferimenti alla sua presunta omosessualità, com'era invece accaduto nel 2009 quando George si trovava a Venezia in veste di attore e produttore de L'uomo che fissa le capre.  Piuttosto sembra di essere tornati un anno indietro, nel 2008, quando George era arrivato al Lido con l'amico Brad Pitt per il Burn After Reading dei fratelli Coen. Eh sì, il feeling tra il Cary Grant del Terzo Millennio e il Lido è di vecchia data e chissà che stavolta non possa arrivare pure un Leone per suggellare l'amore. Cronenberg permettendo.

Lorenzo Lamperti

Festival di Venezia, giorno 0: Striscia la pellicola

Ezio Greggio e Gigi Proietti in Box Office 3D
Un film di Ezio Greggio apre la Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Nonostante questo, pare si tratti sempre di un festival. Lasciando da parte snobismo e cinefilismo iperintellettuale, non può comunque non far drizzare i (residui) capelli in testa la notizia che Box Office, l'ultima fatica (si dice così in gergo, no?) registica di Ezio Greggio sia la prima opera proiettata all'ex festival di cinema più importante del mondo.
"Beh, che c'è di strano?", ha detto il presentatore di Striscia la notizia "io almeno faccio ridere". Sarà davvero così? A sentire i primi commenti di chi lo ha visto, parrebbe di no. Non è che forse Box Office, per giunta in 3D, possa fare la fine del predecessore greggiano Il silenzio dei prosciutti? D'altra parte l'intento è sempre quello, prendere in giro i film americani campioni di incasso in tutto il mondo. Da Harry Potter ad Avatar fino alle varie saghe vampiresche. L'autore giura di no: "Questo è il mio miglior film". E noi gli crediamo, ci mancherebbe. Certo che qualche sospetto sull'operazione ci viene: ma fino a che punto Venezia mette il suo timbro su Box Office? Qualcuno aveva detto: il film di Greggio "apre" la Mostra. Poi si è scoperto che la "preinaugurava". Poi si è notato che nel comunicato stampa non appariva nessuna effige recante il nome di Muller. Infine, si è scoperto che l'opera non appare in nessun catalogo della mostra. Insomma, più che la proiezione a un festival sembrerebbe una visione tra amici in una sala affittata. E, allora, anche se i due casi non c'entrano apparentemente nulla l'uno con l'altro, viene in mente la fantomatica proiezione+premiazione burla alla bulgara Michelle Bonev, "pupilla" del Cavaliere. Un'adorabile messa in scena poco edificante per un festival che aspira a mantenere, o riconquistare, un ruolo di primo piano nel cinema mondiale. 

Lorenzo Lamperti