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giovedì 13 ottobre 2011

Slow&Furious: Drive, una fiaba cinematografica

di Lorenzo Lamperti

Vi ricordate quando da piccoli vi raccontavano una favola prima di mettervi a letto? Io onestamente no, ma nonostante questo l’effetto che fa vedere Drive è proprio quello lì, almeno per un amante del cinema. Drive è la fiaba cinematografica del 2011. Il cinefilo che vi assiste dopo la visione potrà andare a dormire tranquillo e fare sogni d’oro.
Il film di Nicolas Winding Refn ha come protagonista un eroe. Ma un eroe vero, mica come quelli in calzamaglia che il cinema restituisce spesso come pallide e smunte copie di quelli illustrati a china. No, “Driver”, il Pilota, è uno di quelli tosti. Forte, duro ma buono. Immensamente buono. Non tradiscano i suoi lunghi silenzi e il suo spietato modo di uccidere. Lui non c’entra niente con i spacconi splatter di Tarantino e Rodriguez. Eppure sono in tanti ad affannarsi nel trovare analogie tra l’opera di Refn e quelle del “buon” Quentin. Niente di più approssimativo e superficiale. Refn ha una sua poetica molto precisa, uno stile elegante e raffinato nella sua crudezza espressiva. Tanto è violento l’accadimento quanto è virtuoso il trattamento. Refn si può considerare un autore a tutti gli effetti e non c’è bisogno di tirare in mezzo altri registi per capire i suoi film. Refn è Refn, quello di Pusher, di Bronson e Valhalla Rising. Tanto basti.
In Drive racconta la storia di un ragazzo che lavora da meccanico di giorno, da stuntman per le produzioni hollywoodiane di pomeriggio e da autista per rapine milionarie la notte. Ryan Gosling interpreta al meglio un personaggio silenzioso e che non lascia trasparire all’esterno i suoi sentimenti: fugge dalla polizia senza emozioni, guida a 300km orari senza muovere un muscolo, ama senza toccare, uccide senza darne l’impressione. Il problema nasce quando si innamora di Irene, la bella vicina di casa con marito in carcere e figlio a carico. E quando il marito esce dalla prigione e lui si promette di aiutarlo a pagare un debito con dei criminali, allora lì sì viene paura che il film prenda una piega sentimental-consolatoria che romperebbe l’incanto dei primi 40 minuti di visione. Niente di tutto ciò. Refn mantiene il sangue freddo e il cuore caldo e prosegue su una strada non convenzionale. Più Driver si sporca le mani e più diventa Eroe in un crescendo di azione che non riguarda le singole scene, sempre molto curate nel loro lento svolgimento, ma nella loro concatenazione.
Il tutto dominato da una regia forse un po’ manierata ma sempre efficace e talvolta ai limiti dello strabiliante, vedi il surreale tragitto in ascensore dove dal massimo lirismo si passa in un secondo all’apice della violenza. La narrazione è accompagnata da scelte musicali brillanti, come sempre accade in Refn. Se in Valhalla Rising il filo rosso della colonna sonora era l’epicità, qui c’è invece un certo afflato rétro che conquista, con una traccia principale che accentua l’anima fiabesca del film. E alla fine i fast&furious, gli eroi steroidati con lo sguardo da mandrillo e la dialettica portinaiesca saranno solo un brutto incubo. Con Drive si può sognare tranquilli.

mercoledì 12 ottobre 2011

Sorrentino e la purezza della sporcizia

di Lorenzo Lamperti

Cinema Must Be His Place. Partiamo da un semplice assunto: Paolo Sorrentino è il miglior regista italiano da molto tempo a questa parte. Punto. E quando si dice regista non si intende "uno che fa film" ma proprio un Regista. Un artista che mette la sua ispirazione e il suo talento al servizio del cinema. "Mi sono dedicato al cinema per il mio dilettantismo. Saper suonare uno strumento o imparare a dipingere occupa troppo tempo. Nel cinema deve essere competente su tutto ma puoi non essere un fenomeno in niente". Ecco, lui però è un fenomeno nell'unire le varie componenti che stanno alla base delle struttura di un film. Basti citare la sua attenzione per la musica: mai banale, concettualmente portatrice di significato tanto e quanto le immagini.
Nei suoi quattro lungometraggi "italiani", Sorrentino ha portato all'apice la ricerca visiva e stilistica, affrontando temi scomodi e oscuri. I suoi personaggi sono sempre in bilico tra criminalità e anonimato, tra potere e malaffare. Ne Il divo, scandalosamente dimenticato dai nostri luminari che decidono i film da mandare agli Oscar, aveva toccato i vertici artistici del suo cinema: massimo della complessità, massimo del coinvolgimento, massimo dell'impegno narrativo, massimo della bellezza formale. Normale che il film successivo dovesse essere qualche cosa d'altro. Dopo aver messo alla luce un bel libro, Hanno tutti ragione, era naturale, visto anche il suo successo internazionale, che Sorrentino girasse un film "americano".
This Must be the Place è la naturale conseguenza de Il divo. Per quanto i due film siano diversi e sembrino non c'entrare nulla l'uno con l'altro. Dopo aver creato un'opera straordinaria per la sua complessità, concettualmente e formalmente, ecco il naturale sfogo di un artista che dà fondo alle sue passioni adolescenziali. "Il film è un concentrato delle cose che mi piacevano quand'ero ragazzo", dice lui. E si vede. La musica non fa da contrappunto ma accompagna splendidamente e dolcemente la visione e i lenti movimenti di Cheyenne, il protagonista interpretato da un monumentale Sean Penn. Il rocker cinquantenne fallito ma che ancora si trucca alla Robert Smith dei Cure e protagonista di un'inverosimile caccia a un criminale nazista quasi centenario. Una storia pazzesca raccontata con lo stile virtuoso di un autore che resta in stato di grazia. Come tutti i concentrati di qualcosa, anche This Must Be The Place dà ogni tanto l'impressione di essere sovraccarico. Di cose, di sentimenti, di emozioni. Ma lo è in una maniera genuina, pulita e allora sarebbe un peccato, citando il George Clooney di Up in the Air, "togliere qualcosa dallo zaino". E' giusto che ci resti tutto dentro e tutto davanti allo spettatore che ascolta, ride, spera, canta e un po' sogna. This Must Be The Place è, come dice anche il suo creatore, una splendida e "lussuosa vacanza" dal cinema italiano. Una parentesi aperta, che comunica con i film precedenti di Sorrentino in maniera impercettibile ma evidente. Ma se cadere nella pura nostalgia dell'adolescenza è una tentazione a cui è difficile resistere, risalire nella consueta sporcizia dell'attualità italiana per Sorrentino sarà sempre più facile. D'altronde, da nessun altra parte come nei suoi film il marcio diventa limpido.

Leggi l'intervista a Paolo Sorrentino

lunedì 10 ottobre 2011

Intervista a Sorrentino: "Ma quale Oscar, voglio la Palma"

Qui di seguito l'inizio dell'intervista che ho realizzato a Paolo Sorrentino per il quotidiano online Affaritaliani.it.

di Lorenzo Lamperti

"L'Oscar? Sì, è un premio magnifico ma io preferirei una Palma d'oro a Cannes". Paolo Sorrentino, autore di capolavori come Le conseguenze dell'amore e Il divo, non smentisce la sua fama di essere un autore controcorrente, nemmeno dopo essere andato a girare un film nel cuore dell'industria cinematografica mondiale, l'America.
"Gli Stati Uniti sono un luogo da sogno. Girare lì per me è stata come una lussuosa vacanza, lontano dalla difficile realtà italiana", dice Sorrentino in un'intervista ad Affaritaliani.it. This Must Be The Place, in uscita nelle sale venerdì 14 ottobre, racconta la storia di Cheyenne, un rocker cinquantenne, interpretato da Sean Penn, che si è ritirato dalle scene ma ancora si trucca alla Robert Smith dei Cure come quando aveva 15 anni.
Sul cinema italiano Sorrentino dice: "C'è poca concorrenza. Si è creato un oligopolio che appiattisce la produzione. C'è tanta paura nel provare a fare qualcosa di diverso, anche perché girare un film costa tanto". E sulle storie da raccontare: "In Italia c'è un panorama molto attraente. Basta aprire un giornale e la cronaca o la politica ti offrono un sacco di spunti. I personaggi più interessanti alla fine sono quelli che fanno cose malsane al Paese e da noi, purtroppo, ce ne sono tanti".

LEGGI L'INTERVISTA COMPLETA

martedì 4 ottobre 2011

LYNCH EMPIRE: dal cinema al disco Crazy Clown Time

di Lorenzo Lamperti

Alzi la mano chi non ne sente la mancanza... Ehm, beh okay voi abbassatela... Sono in tanti a sentirsi in astinenza da David Lynch. Sono passati esattamente cinque anni dal suo ultimo lungometraggio, INLAND EMPIRE, che venne presentato nel settembre 2006 al Festival di Venezia quando il buon David si portò a casa il Leone d'oro alla carriera. Da lì in poi, stop. Non è la prima volta che tra un film di Lynch e il successivo passa parecchio tempo. Passarono cinque anni anche tra Fire Walk With Me e Lost Highway (Strade perdute) e tra Mulholland Drive e lo stesso INLAND EMPIRE. Ma le altre volte si sapeva che il regista di Eraserhead e Velluto blu stava lavorando a qualcosa. Ora è diverso. Sembra che Lynch non abbia nessuna idea per un nuovo lungometraggio. Ne saranno felici tutti coloro che lo trovano troppo complicato e oscuro, tutti gli altri iniziano a preoccuparsi. Eh sì che di voci ce n'erano state su suoi nuovi progetti, ma lui li ha smentiti tutti, compreso il chiacchierato film d'animazione Snoot World. Dal 2006 in poi Lynch ha sfornato solo qualche cortometraggio. Gli ultimi due suoi video sono stati lo spot lungo per Dior intitolato Lady Blue Shanghai e il corto per la Viennale The 3S.




La verità è che Lynch sembra essere molto preso dai suoi progetti musicali. Lynch ha sempre avuto un'attenzione particolare alla musica, e per qualcuno dei suoi film ha anche composto delle tracce per la colonna sonora. Ma ora si rimette totalmente in gioco su questo versante con un disco che si chiama Crazy Clown Time che uscirà il prossimo 8 novembre. Un disco da solista con tracce elettropop, tipo i due singoli che anticipano l'album: "Good Day Today" e "I Know". Per il video di "I Know" è stato indetto un concorso per giovani artisti. Tra i 450 video arrivati, lo stesso David Lynch ha scelto quello di Tamar Drachli, che ha in effetti un'atmosfera molto peculiare e in tono con la poetica del maestro.



Insomma, dagli occhi si passa alle orecchie. Vedremo se Lynch saprà deliziare il suo pubblico con un altro medium. Comunque vada, non si può non lodare il coraggio di un autore che ama sperimentare e spaziare tra le diverse forme d'arte. Lynch, infatti, nasce prima di tutto pittore. Poi, come ha dichiarato una volta: "Un giorno entrò un soffio di vento nella mia stanza e il quadro che stavo dipingendo sembrò animarsi. Lo vidi muoversi. In quel momento decisi che avrei voluto fare cinema". Un cinema surrealista, perturbante, unico tanto da acquisire l'etichetta di lynchano. Già i corti e i mediometraggi di Lynch, su tutti The Grandmother, mostravano qualcosa di diverso, di mai visto. Una sperimentazione continua e allucinata nel rapporto tra immagini e audio. Per il lungometraggio d'esordio, arrivò la benedizione di Stanley Kubrick: "Se c'è un film che rimpiango di non aver girato? Sì, uno solo: Eraserhead". Dopo aver decostruito il classicismo (The Elephant Man), il thriller (Velluto blu) e aver inventato un nuovo modo di fare televisione (Twin Peaks), Lynch ha esplorato i più reconditi luoghi dell'inconscio umano con quella che può quasi essere considerata una trilogia: Lost Highway, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE. E ora? Cosa resta da fare per Lynch nel cinema? Dopo aver realizzato un'opera capitale come INLAND EMPIRE è difficile per un autore andare avanti, impossibile andare oltre. "La sensazione, netta e inspiegabile è che Lynch abbia realizzato la sua Odissea". Difficile dare torto al critico che pronunciò questa frase al Lido dopo aver visto l'ultimo film del regista del Montana. In INLAND EMPIRE l'immaginario di Lynch è letteralmente esploso e con esso il suo mondo cinematografico. Lynch non si è risparmiato, ha dato fondo a tutto se stesso creando un'opera che non potrà mai superare. Non tanto e non solo per l'esito artistico, ma proprio dal punto di vista immaginistico. L'unica possibilità è che Lynch si metta a fare film completamente diversi: un film d'animazione era un'idea. Altre opzioni sono un documentario o forse una commedia. C'è chi sogna ancora di vedergli un giorno girare Ubik tratto dal romanzo di Philip K. Dick. Ma Lynch è difficile che documenti, tragga, si ispiri. Lynch non descrive mondi. Lui demiurgicamente, li crea. E se non dovesse più fare film, non dimentichiamoci che Lynch non è un regista cinematografico. E' un artista.

lunedì 3 ottobre 2011

Manetti bros, incontri ravvicinati del quarto tipo

di Lorenzo Lamperti

Pubblichiamo di seguito il testo di un'intervista realizzata ai Manetti bros. lo scorso 3 settembre, quando i due fratelli registi, tra le altre cose, di Piano 17 si trovavano al Festival di Venezia per presentare L'arrivo di Wang.

Come ci si sente a essere per la prima volta al festival di Venezia con un vostro film?“È un misto di felicità e paura. Siamo un po’ preoccupati perché siamo qui con un film che non è tipico per un festival come quello di Venezia. Ci sentiamo molto degli outsider qui al Lido”.
Come nasce l’idea di girare un film di fantascienza?“Nasce dall’incontro con i più grandi cervelli della grafica 3D in Italia, quelli della Palantir Digital, una squadra dove c’è tra gli altri anche Maurizio Memoli, che ha lavorato ai modelli di Avatar. Il 3d in Italia non ha ancora preso piede al cinema, ma visto che loro volevano fare un film e noi già li conoscevamo ci siamo detti: perché non unire le forze?”
Per il vostro film precedente, Piano 17, si era parlato molto del vostro basso budget. Qui invece quali sono state le spese di produzione?“Quando si fa un film di genere in Italia le spese sono sempre e per forza basse. Però stavolta abbiamo deciso di non dire quanto abbiamo speso, perché se no finisce come per Piano 17, che si parla solo di quello e non del film.”
È raro che in Italia si faccia un film sugli alieni. Quest’anno invece arrivano a Venezia ben due film con questo argomento: il vostro e quello di Gipi. Cosa può significare?“Noi e Gipi facciamo parte della stessa generazione. Siamo cresciuti con i fumetti e i romanzi di fantascienza. I nostri film saranno sicuramente molto diversi, però il fatto che ci ritroviamo qui insieme credo sia un buon segno. Magari è la volta buona che il cinema italiano conosca un ricambio culturale e ci si avvicini un po’ al cinema di genere.”
Per il futuro che progetti avete?“Intanto stiamo già montando il nostro film successivo, che è un horror in 3d e si chiama La stanza dell’orco. Poi in cantiere abbiamo una storia western. Certo, il nostro sogno sarebbe fare un bel film su un supereroe: magari un bell’Uomo Ragno. Non Spiderman come lo chiamano adesso, eh. Proprio l’Uomo Ragno.”

sabato 1 ottobre 2011

Cronenberg non è più pericoloso: A Dangerous Method

di Elisa Fontana (iCine.it)

Fa il suo esordio nelle sale A Dangerous Method, ultimo lavoro del regista canadese David Cronenberg, presentato in concorso al 68° Festival del Cinema di Venezia
La pellicola racconta l’evolversi della relazione tra due grandi personalità della psicanalisi, Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Gustav Jung (Michael Fassbender), e del loro rapporto con Sabina Spielrein (Keira Knightley), giovane donna affetta da grave isteria con la quale l’analista svizzero decide di sperimentare l’allora innovativo trattamento freudiano. La scena si apre sulla coraggiosa recitazione della Knightley che, per gran parte del primo tempo, domina incontrastata lo schermo, restituendo senza inibizioni i tormenti psicologici che impediscono a Sabina di vivere una vita normale, dilaniandone tanto lo spirito quanto il corpo. Proprio nell’analisi della malattia della donna e delle sue origini emerge la nota tendenza di Cronenberg ad indagare nel lato più oscuro e perturbante dell’esperienza umana e a toccare, come solo lui sa fare, le corde più intime e sensibili dello spettatore.
Dopo un inizio convincente, il film si assesta su toni più pacati, procedendo ad approfondire la relazione fra i tre protagonisti. Mentre il rapporto tra Jung e Sabina valica ben presto i limiti della relazione medico paziente, anche grazie all’intervento di Otto Gross (Vincent Cassel), psichiatra dalla dubbia moralità in cura da Jung, il sodalizio tra i due studiosi prende avvio sotto i migliori auspici e Cronenberg ne segue il divenire, dall’apprezzamento incondizionato del discepolo verso il maestro sino ai primi dissensi che approfondiranno sempre più il divario tra i due. Proprio in questo varco si inserirà la giovane Sabina quando, dall’essere amante dell’uno, inizierà lentamente a divenire allieva dell’altro, allontanandosi sempre più dall’analista svizzero per ricercare una maggiore stabilità e una propria identità professionale.
Nonostante le grandi potenzialità offerte dalla tematica trattata, la pellicola si concentra soprattutto sui dialoghi e persino le tinte usate per disegnare le ambientazioni relegano gli scenari sullo sfondo, quasi a voler lasciare il campo libero alle conversazioni tra i protagonisti e all’evolversi dei loro rapporti; il risultato è un film un po’ verboso ed insolito per Cronenberg che, affascinato dal materiale narrativo, se ne lascia in qualche modo sopraffare senza dominarlo: nonostante l’inizio porti chiara la firma autoriale, il tocco personale del regista si perde ben presto lasciando lo spettatore davanti a un lavoro indubbiamente ben fatto, piacevole e interessante, ma dal sapore neutro, ben lontano dalle prove a cui l’autore canadese ci ha abituato.