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mercoledì 12 ottobre 2011

Sorrentino e la purezza della sporcizia

di Lorenzo Lamperti

Cinema Must Be His Place. Partiamo da un semplice assunto: Paolo Sorrentino è il miglior regista italiano da molto tempo a questa parte. Punto. E quando si dice regista non si intende "uno che fa film" ma proprio un Regista. Un artista che mette la sua ispirazione e il suo talento al servizio del cinema. "Mi sono dedicato al cinema per il mio dilettantismo. Saper suonare uno strumento o imparare a dipingere occupa troppo tempo. Nel cinema deve essere competente su tutto ma puoi non essere un fenomeno in niente". Ecco, lui però è un fenomeno nell'unire le varie componenti che stanno alla base delle struttura di un film. Basti citare la sua attenzione per la musica: mai banale, concettualmente portatrice di significato tanto e quanto le immagini.
Nei suoi quattro lungometraggi "italiani", Sorrentino ha portato all'apice la ricerca visiva e stilistica, affrontando temi scomodi e oscuri. I suoi personaggi sono sempre in bilico tra criminalità e anonimato, tra potere e malaffare. Ne Il divo, scandalosamente dimenticato dai nostri luminari che decidono i film da mandare agli Oscar, aveva toccato i vertici artistici del suo cinema: massimo della complessità, massimo del coinvolgimento, massimo dell'impegno narrativo, massimo della bellezza formale. Normale che il film successivo dovesse essere qualche cosa d'altro. Dopo aver messo alla luce un bel libro, Hanno tutti ragione, era naturale, visto anche il suo successo internazionale, che Sorrentino girasse un film "americano".
This Must be the Place è la naturale conseguenza de Il divo. Per quanto i due film siano diversi e sembrino non c'entrare nulla l'uno con l'altro. Dopo aver creato un'opera straordinaria per la sua complessità, concettualmente e formalmente, ecco il naturale sfogo di un artista che dà fondo alle sue passioni adolescenziali. "Il film è un concentrato delle cose che mi piacevano quand'ero ragazzo", dice lui. E si vede. La musica non fa da contrappunto ma accompagna splendidamente e dolcemente la visione e i lenti movimenti di Cheyenne, il protagonista interpretato da un monumentale Sean Penn. Il rocker cinquantenne fallito ma che ancora si trucca alla Robert Smith dei Cure e protagonista di un'inverosimile caccia a un criminale nazista quasi centenario. Una storia pazzesca raccontata con lo stile virtuoso di un autore che resta in stato di grazia. Come tutti i concentrati di qualcosa, anche This Must Be The Place dà ogni tanto l'impressione di essere sovraccarico. Di cose, di sentimenti, di emozioni. Ma lo è in una maniera genuina, pulita e allora sarebbe un peccato, citando il George Clooney di Up in the Air, "togliere qualcosa dallo zaino". E' giusto che ci resti tutto dentro e tutto davanti allo spettatore che ascolta, ride, spera, canta e un po' sogna. This Must Be The Place è, come dice anche il suo creatore, una splendida e "lussuosa vacanza" dal cinema italiano. Una parentesi aperta, che comunica con i film precedenti di Sorrentino in maniera impercettibile ma evidente. Ma se cadere nella pura nostalgia dell'adolescenza è una tentazione a cui è difficile resistere, risalire nella consueta sporcizia dell'attualità italiana per Sorrentino sarà sempre più facile. D'altronde, da nessun altra parte come nei suoi film il marcio diventa limpido.

Leggi l'intervista a Paolo Sorrentino

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