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lunedì 12 dicembre 2011

Woody will always have Paris

“We’ll always have Paris”. Woody Allen non ha mai nascosto che questa è una delle sue battute preferite nella storia del cinema. Amava tanto Casablanca e la battuta di Humphrey Bogart da inserirla in una sua commedia, Play It Again, Sam, sia nella piéce teatrale sia nell’omonimo film diretto da Herbert Ross. Il newyorkese Woody ha sempre amato innanzitutto l’Europa. E, forse ancor prima del Vecchio Continente, Parigi. Lui, un ebreo di Manhattan di origini russo ungheresi. Ama definirsi un “americano europeo” o addirittura un “europeo americano”. Eterna contraddizione di un uomo e di un artista che si è sempre mosso a fatica dalla sua isola. “Un uomo non è un’isola”, diceva Annie Hall ad Alvy Singer nel film che è stato più generoso di successi con Allen, pur se non richiesti (leggi: 4 Oscar non ritirati). 34 anni dopo pare che il buon Woody abbia colto questo insegnamento. E continua il suo lungo tour europeo, che ormai lo vede toccare quasi ogni singolo Paese. Londra (3 volte), Barcellona, di nuovo Londra, ora Parigi. E con Roma già dietro l’angolo. La tappa parigina è quella forse più sentita da Woody, che mette in pellicola, ancora una volta, se stesso, o quantomeno il se stesso artista, il se stesso personaggio.

“Nessuno è felice nel luogo dove si trova”. Questo è l’assunto di base di Midnight In Paris. Un assunto che potrebbe essere esteso alla stesa esistenza di Allen. Lui stesso aveva parlato di anhedonia decenni fa, ovvero ”l’incapacità di trarre soddisfazione dalla propria esistenza”. Woody è un americano che vorrebbe essere europeo. Ma appena arriva in Europa gli manca Manhattan. Allo stesso modo, anche il protagonista del film, Gil, ha sempre sognato di vivere nella Parigi degli anni Venti. Ma quando il suo sogno si può realizzare comprende che non esiste un’epoca d’oro. La belle époque è relativa, il tempo è un continuo gioco malinconico di rimpianto verso ciò che non si ha. “La nostalgia del non vissuto”, la definiva qualcuno. Bene, è proprio quella che pervade Gil, come Woody.

Un film bellissimo, Midnight In Paris. Crepuscolare, e non potrebbe essere altro vista l’ora del giorno indagata. Leggero, come solo il tocco di Woody può essere. Un tocco inconfondibile, sia che dipinga l’Upper East Side sia che dipinga Tottenham o Mont Martre. Una favola, a cui non si smette di credere neppure per un secondo. Non ci si chiede mai se Gil arrivi davvero negli anni Venti oppure no. Non è quella la questione importante. Né ci si chiede come sia possibile il fatto che ogni mezzanotte su una scalinata nella Parigi del 2010 uno scrittore americano riesca a finire nel circolo letterario di Gertude Stein. E qui incontrare Hemingway, Picasso, Bunuel, Dalì, Scott Fitzgerald. Un piacere citazionistico e decostruzionista che si vorrebbe durasse per sempre. Irresistibile la messa in scena dei rendez vous con gli artisti, su tutti quello con un ottimo Adrien Brody nei panni del surrealista Dalì.

Le tematiche toccate sono quelle dell’Allen più intimista, anche se qui le affronta sempre con il sorriso sulle labbra. Tutto si gioca sul filo di talento e sensibilità. Gil ha la sensibilità per essere un grande scrittore, ma ne ha anche il talento oppure dovrà restare a scrivere scadenti sceneggiature di blockbuster hollywoodiani? Sembra la stessa domanda che guidava Interiors nel personaggio di Joey. Esprimere ciò che si sente. L’ossessione di Allen. Sempre alla ricerca di profondità diverse, quasi non bastasse mai quello che viene detto. Né dove viene detto. Forse Parigi può aiutare Gil e ha aiutato Woody, che dopo un viaggio nel fantastico ancora una volta sceglie la realtà. Anche se questa volta realtà e fantasia sembra possano coincidere. Al contrario di quello che succedeva ne La rosa purpurea del Cairo. Lì Mia Farrow sceglieva la realtà, e ne veniva incontrovertibilmente delusa. Qui Gil sceglie non la realtà, ma il suo tempo. Decide di cambiare il suo tempo e farlo divenire reale. Basterà per vincere l’anhedonia? Non è dato saperlo, ma Woody vorrebbe credere di sì. Lui continua a girare. Ma un monolocale a Mont Martre non vivrà mai.
Lorenzo Lamperti

mercoledì 30 novembre 2011

Miei cari assassini, tra horror e thriller made in Italy

I confini tra horror e thriller sono sempre stati labili. Paura, shock, morte e buio sono figure ricorrenti nell'uno e nell'altro immaginario: un filo nero che collega due generi così lontani, eppure così vicini. Cosa distingue, allora, una pellicola thriller da una horror? Bartolini, Cavenaghi, Magni e Servini provano a fare chiarezza e a fissare alcuni punti fermi focalizzandosi sulla storia del thriller e dell'horror nel nostro Paese, e indagando all'interno dei numerosi titoli a metà strada tra i due generi. Da Profondo rosso a La casa dalle finestre che ridono, da Buio Omega ai recentissimi Shadow e At the End of the Day, tante sono le opere di difficile classificazione, inserite non a caso nei volumi dedicati alla storia del thriller e dell'horror nostrano che saranno presentate in anteprima nel corso delle serate. Ospite d'eccezione della serata conclusiva sarà Cosimo Alemà, regista di At the End of the Day, che per l'occasione presenterà il dvd e il blu-ray del film, editi da Cghv (collana CineKult), firmandone le copie per i fan. Tre appuntamenti da brivido, tre serate per non dormire.
Primo appuntamento

GIOVEDÌ 1 DICEMBRE THRILLING
Ore 20.30 – Presentazione dei volumi
Thriller italiano in 100 film - (C. Bartolini, L. Servini, Le Mani, Recco, 2011)
Cripte e Incubi. Dizionario dei film horror italiani - (M. Cavenaghi, Bloodbuster, Milano, 2011).

Saranno presenti gli autori dei libri che dialogheranno sui confini tra i generi della paura.

Ore 21.30 – Proiezione di
SHADOW di Federico Zampaglione, 2009
David, un giovane soldato di ritorno dall'Iraq, decide di ritirarsi in una isolata località di montagna per ricomporre i pezzi della sua vita. In mezzo ad una foresta David incontra Angeline e insieme a lei inizia a esplorare la zona, venendo a conoscenza anche di una terrificante leggenda locale. Ben presto il giovane sarà costretto a rendersi conto che la credenza popolare è più vera di quanto si creda, diventando suo malgrado testimone di eventi ben più orribili e crudeli di quelli vissuti durante la guerra.
Proiezione c/o Spazio Ligera - enoteca 70's cafè - via Padova 133, Milano (M2 Cimiano - autobus 56 da Piazzale Loreto)
ingresso biglietto 2 euro tessera associativa 3 euro
programma completo http://www.lascheggia.org/mieicariassassini.htmlinformazioni info@lascheggia.org

martedì 22 novembre 2011

Filmmaker Doc 16

FILMMAKER DOC 16Milano 22 - 30 novembre 2011

Comunicato stampa
mercoledì 23 novembre
Fabbrica del Vapore - Via Procaccini 4, Milano
Gnomo Milano Cinema - Via Lanzone 30, Milano
Centre Culturel Français, Corso Magenta 63, Milano
Ingresso gratuito

Programma Fabbrica del Vapore
15.00 Raccontare Milano. Tavola rotonda con gli autori della sezione Milano Metropoli
18.00 Antonio Somaini presenta Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio. Einaudi, 2011.
          Insieme all'autore interviene Barbara Grespi, Università di Bergamo.
Programma Gnomo Milano Cinema
18.30 Extra_Heimat di Federico Tinelli (Fuori Formato)
18.45 Una miniera di ricordi  di Fabio Montella (Fuori Formato)
18.55 Dora Gaia di Giovanna Cicciari (Fuori Formato)
20.00 Notes sur nos voyages en Russie e Diario 1989.Dancing in the Dark di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (Programma Speciale).
          Incontro con Gianikian e Ricci Lucchi condotto da Paolo Mereghetti.
22.00 Alvorada Vermelha di Joao Pedro Rodrigues e Joao Rui Guerra da Mata (Concorso)
22.30 In attesa dell'Avvento di Felice D'Agostino e Arturo Lavorato (Concorso)
22.50 Sack Barrow di Ben Rivers (Concorso)
Programma Centre Culturel Français
22.00 L'Anabase de May et Fusako Shigenobu, Masao Adachi et 27 anées sans images di Eric Baudelaire (Concorso)

FILMMAKER DOC 16, l'edizione 2011 è dedicata a Silvano Cavatorta, storico direttore della manifestazione, scomparso nello scorso mese di marzo.

Giornata fitta di incontri e di titoli che si declinano in tre schermi quella di mercoledì 23.
Lo Gnomo propone tre titoli da Fuori Formato, tre dal Concorso Internazionale e due lavori firmati Gianikian/Ricci Lucchi che accompagnano in sala il dittico composto
da Dancing in the Dark e Notes sur nos voyages en Russie. Il primo, girato nell'estate del 1989 a poco piu' di due mesi dalla caduta del muro di Berlino, si snoda in Feste
dell'Unità tra l'Emilia e la Romagna, il secondo è un viaggio tra i protagonisti delle avanguardie russe degli anni Venti e Trenta, perseguitati dal comunismo. I due registi, tra
il 1989 e il 1990, intervistano a Leningrado-San Pietroburgo i sopravvisuti di quella lunga storia.
L'incontro con Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi è condotto da Paolo Mereghetti, critico del Corriere della Sera e autore con Enrico Nosei di
Cinema anni di vita:Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (Il Castoro, 2000).
Dal Concorso: Alvorada Vermelha di Joao Pedro Rodrigues e Joao Rui Guerra da Mata che filmano il Mercato Rosso, il famoso mercato di generi alimentari di Macao:
i gesti, la routine del lavoro, i colori, gli odori e il sangue. Un mondo tra realtà e finzione, tra animali fatti a pezzi e donne sirene....
E ancora In attesa dell'Avvento di Felice D'Agostino e Arturo Lavorato che ricordano il 1971 della rivolta a Reggio Calabria. Storia di quaranta anni fa che ritorna con
ombre inquitanti. Da ultimo Sack Barrow di Ben Rivers. L'autore va a visitare una fabbrica, nella periferia di Londra e osserva, nell'ultimo mese di vita della fabbrica
che era stata aperta nel 1931 per dare lavoro ai reduci e agli invalidi di guerra, l'ambiente e la routine dei pochi operai rimasti.
Da Fuori Formato:Extra_Heimat di Federico Tinelli, autore milanese diplomatosi alla Civica Scuola di Cinema di Milano nel 1999; segueUna miniera di ricordi
di Fabio Montella, protagonista Maria Dell'Acqua di anni 88 che ha vissuto tutte le trasformazioni che si sono succedute a Cabernardi e Cantarino, due piccoli villaggi, divenuti
insediamenti fantasma, del Comune di Sassoferrato (Ancona). Nel passato i due paesi avevano conosciuto una crescita formidabile grazie alle miniere di zolfo della Montecatini;
finita l'epoca dello zolfo è iniziata l'emigrazione in Belgio. Il terzo titolo è Dora Gaia di Giovanna Cicciari che segue passo dopo passo il lavoro, creativo ma anche fisico, di un
giovane scultore stabilitosi a Carrara.
Centre Culturel Français dal Concorso Internazionale: L'Anabase de May et Fusako Shigenobu, Masao Adachi et 27 anées sans images di Eric Baudelaire. Il regista
racconta la latitanza in Libano di Fusako, leader di un gruppo di estrema sinistra giapponese implicato in operazioni terroristiche. May, sua figlia, nasce in Libano e, solo a
27 anni, dopo l'arresto di sua madre, "scopre" il Giappone. Fino ad allora ha vissuto con un'identità che non è mai stata la sua.
La Fabbrica del vapore  ospita alle 15.00 Raccontare Milano. Tavola rotonda con gli autori della sezione Milano Metropoli, filmmakers che operano nel capoluogo
lombardo e nella sua provincia.
Segue, alle 18.00, la presentazione di Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio. Einaudi, 2011. Insieme a Antonio Somaini, autore del libro, interviene Barbara Grespi,
docente dell'Università di Bergamo.

mercoledì 16 novembre 2011

Cinema Gnomo, a breve i titoli di coda

Cinema Maestoso
Ssst. Sta cominciando. Le luci si spengono. Niente pubblicità. Lo schermo si accende solo dopo che si apre un vecchio sipario. E via al film. Quasi sempre d'autore. Oppure di un giovane indipendente. Questo è stato per molti anni il cinema Gnomo di Milano.
Situato in un cortiletto in via Lanzone 30, chiuso tra la basilica di Sant'Ambrogio e la sede dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, lo Gnomo era uno dei pochi punti di incontro del cinema d'essai milanese. Ora sta per chiudere.
La gestione del Comune si concluderà con il 31 dicembre 2011 e il locale tornerà alla curia. L'assessore alla cultura Stefano Boeri promette che al posto dello Gnomo verrà riaperto il Nuovo Cinema Orchidea di via Terraggio, chiuso da parecchio tempo. Il Nuovo Orchidea dovrebbe diventare un centro polifunzionale per eventi cinematografici e culturali. Questo però non prima della seconda metà del 2012.
Intanto i cinefili di Milano perdono un luogo che era diventato un simbolo della settima arte, specialmente per le numerose iniziative e festival ospitati. Dal Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina fino all'I've Seen Film diretto da Rutger Hauer.
Intanto questa settimana la sala continua a ospitare rassegne. Dal 15 al 17 novembre c'è "Opere prime, le promesse del cinema d'autore italiano". Il 18 novembre giornata speciale tutta dedicata alla musica, "This is Music", con la proiezione di 24 Hours Party People di Michael Winterbottom e Berlin Calling di Hannes Stohr. Il 19 novembre lo Gnomo ospita una giornata dedicata alla neonata rivista di critica cinematografica filmidee. Si chiude domenica 20 con la proiezione di quattro film del regista neyorkese Abel Ferrara, con tanto di presentazione della monografia a cura di Fabrizio Fogliato.
Il pubblico milanese spera che tutto questo non vada a sfumare insieme all'ultima pellicola che sarà proiettata allo Gnomo.

martedì 15 novembre 2011

Filmmaker lancia il progetto Ecoreporter

Filmmaker, in collaborazione con Lega Ambiente, lancia il concorso/progetto Ecoreporter cercasi.Per partecipare c’è tempo fino a giovedì 17 novembre.

A partire da un concorso per brevi documentari o reportage (max 3 minuti) sulle tematiche ambientali (per partecipare c’è tempo fino al 17 novembre) Filmmaker propone il 24 novembre alle ore 20.00 un workshop condotto dal regista Bruno Oliviero (Piazza Municipio, Milano 55, 1 Cronaca di una settimana di passioni) e dall’inviato di Report Emilio Casalini che saranno chiamati a commentare e a ragionare sui lavori presentati e proiettati in pubblico al Cinema Gnomo.
Per i riferimenti sul concorso: www.6pianeta.tv/ecoreporter

giovedì 13 ottobre 2011

Slow&Furious: Drive, una fiaba cinematografica

di Lorenzo Lamperti

Vi ricordate quando da piccoli vi raccontavano una favola prima di mettervi a letto? Io onestamente no, ma nonostante questo l’effetto che fa vedere Drive è proprio quello lì, almeno per un amante del cinema. Drive è la fiaba cinematografica del 2011. Il cinefilo che vi assiste dopo la visione potrà andare a dormire tranquillo e fare sogni d’oro.
Il film di Nicolas Winding Refn ha come protagonista un eroe. Ma un eroe vero, mica come quelli in calzamaglia che il cinema restituisce spesso come pallide e smunte copie di quelli illustrati a china. No, “Driver”, il Pilota, è uno di quelli tosti. Forte, duro ma buono. Immensamente buono. Non tradiscano i suoi lunghi silenzi e il suo spietato modo di uccidere. Lui non c’entra niente con i spacconi splatter di Tarantino e Rodriguez. Eppure sono in tanti ad affannarsi nel trovare analogie tra l’opera di Refn e quelle del “buon” Quentin. Niente di più approssimativo e superficiale. Refn ha una sua poetica molto precisa, uno stile elegante e raffinato nella sua crudezza espressiva. Tanto è violento l’accadimento quanto è virtuoso il trattamento. Refn si può considerare un autore a tutti gli effetti e non c’è bisogno di tirare in mezzo altri registi per capire i suoi film. Refn è Refn, quello di Pusher, di Bronson e Valhalla Rising. Tanto basti.
In Drive racconta la storia di un ragazzo che lavora da meccanico di giorno, da stuntman per le produzioni hollywoodiane di pomeriggio e da autista per rapine milionarie la notte. Ryan Gosling interpreta al meglio un personaggio silenzioso e che non lascia trasparire all’esterno i suoi sentimenti: fugge dalla polizia senza emozioni, guida a 300km orari senza muovere un muscolo, ama senza toccare, uccide senza darne l’impressione. Il problema nasce quando si innamora di Irene, la bella vicina di casa con marito in carcere e figlio a carico. E quando il marito esce dalla prigione e lui si promette di aiutarlo a pagare un debito con dei criminali, allora lì sì viene paura che il film prenda una piega sentimental-consolatoria che romperebbe l’incanto dei primi 40 minuti di visione. Niente di tutto ciò. Refn mantiene il sangue freddo e il cuore caldo e prosegue su una strada non convenzionale. Più Driver si sporca le mani e più diventa Eroe in un crescendo di azione che non riguarda le singole scene, sempre molto curate nel loro lento svolgimento, ma nella loro concatenazione.
Il tutto dominato da una regia forse un po’ manierata ma sempre efficace e talvolta ai limiti dello strabiliante, vedi il surreale tragitto in ascensore dove dal massimo lirismo si passa in un secondo all’apice della violenza. La narrazione è accompagnata da scelte musicali brillanti, come sempre accade in Refn. Se in Valhalla Rising il filo rosso della colonna sonora era l’epicità, qui c’è invece un certo afflato rétro che conquista, con una traccia principale che accentua l’anima fiabesca del film. E alla fine i fast&furious, gli eroi steroidati con lo sguardo da mandrillo e la dialettica portinaiesca saranno solo un brutto incubo. Con Drive si può sognare tranquilli.

mercoledì 12 ottobre 2011

Sorrentino e la purezza della sporcizia

di Lorenzo Lamperti

Cinema Must Be His Place. Partiamo da un semplice assunto: Paolo Sorrentino è il miglior regista italiano da molto tempo a questa parte. Punto. E quando si dice regista non si intende "uno che fa film" ma proprio un Regista. Un artista che mette la sua ispirazione e il suo talento al servizio del cinema. "Mi sono dedicato al cinema per il mio dilettantismo. Saper suonare uno strumento o imparare a dipingere occupa troppo tempo. Nel cinema deve essere competente su tutto ma puoi non essere un fenomeno in niente". Ecco, lui però è un fenomeno nell'unire le varie componenti che stanno alla base delle struttura di un film. Basti citare la sua attenzione per la musica: mai banale, concettualmente portatrice di significato tanto e quanto le immagini.
Nei suoi quattro lungometraggi "italiani", Sorrentino ha portato all'apice la ricerca visiva e stilistica, affrontando temi scomodi e oscuri. I suoi personaggi sono sempre in bilico tra criminalità e anonimato, tra potere e malaffare. Ne Il divo, scandalosamente dimenticato dai nostri luminari che decidono i film da mandare agli Oscar, aveva toccato i vertici artistici del suo cinema: massimo della complessità, massimo del coinvolgimento, massimo dell'impegno narrativo, massimo della bellezza formale. Normale che il film successivo dovesse essere qualche cosa d'altro. Dopo aver messo alla luce un bel libro, Hanno tutti ragione, era naturale, visto anche il suo successo internazionale, che Sorrentino girasse un film "americano".
This Must be the Place è la naturale conseguenza de Il divo. Per quanto i due film siano diversi e sembrino non c'entrare nulla l'uno con l'altro. Dopo aver creato un'opera straordinaria per la sua complessità, concettualmente e formalmente, ecco il naturale sfogo di un artista che dà fondo alle sue passioni adolescenziali. "Il film è un concentrato delle cose che mi piacevano quand'ero ragazzo", dice lui. E si vede. La musica non fa da contrappunto ma accompagna splendidamente e dolcemente la visione e i lenti movimenti di Cheyenne, il protagonista interpretato da un monumentale Sean Penn. Il rocker cinquantenne fallito ma che ancora si trucca alla Robert Smith dei Cure e protagonista di un'inverosimile caccia a un criminale nazista quasi centenario. Una storia pazzesca raccontata con lo stile virtuoso di un autore che resta in stato di grazia. Come tutti i concentrati di qualcosa, anche This Must Be The Place dà ogni tanto l'impressione di essere sovraccarico. Di cose, di sentimenti, di emozioni. Ma lo è in una maniera genuina, pulita e allora sarebbe un peccato, citando il George Clooney di Up in the Air, "togliere qualcosa dallo zaino". E' giusto che ci resti tutto dentro e tutto davanti allo spettatore che ascolta, ride, spera, canta e un po' sogna. This Must Be The Place è, come dice anche il suo creatore, una splendida e "lussuosa vacanza" dal cinema italiano. Una parentesi aperta, che comunica con i film precedenti di Sorrentino in maniera impercettibile ma evidente. Ma se cadere nella pura nostalgia dell'adolescenza è una tentazione a cui è difficile resistere, risalire nella consueta sporcizia dell'attualità italiana per Sorrentino sarà sempre più facile. D'altronde, da nessun altra parte come nei suoi film il marcio diventa limpido.

Leggi l'intervista a Paolo Sorrentino

lunedì 10 ottobre 2011

Intervista a Sorrentino: "Ma quale Oscar, voglio la Palma"

Qui di seguito l'inizio dell'intervista che ho realizzato a Paolo Sorrentino per il quotidiano online Affaritaliani.it.

di Lorenzo Lamperti

"L'Oscar? Sì, è un premio magnifico ma io preferirei una Palma d'oro a Cannes". Paolo Sorrentino, autore di capolavori come Le conseguenze dell'amore e Il divo, non smentisce la sua fama di essere un autore controcorrente, nemmeno dopo essere andato a girare un film nel cuore dell'industria cinematografica mondiale, l'America.
"Gli Stati Uniti sono un luogo da sogno. Girare lì per me è stata come una lussuosa vacanza, lontano dalla difficile realtà italiana", dice Sorrentino in un'intervista ad Affaritaliani.it. This Must Be The Place, in uscita nelle sale venerdì 14 ottobre, racconta la storia di Cheyenne, un rocker cinquantenne, interpretato da Sean Penn, che si è ritirato dalle scene ma ancora si trucca alla Robert Smith dei Cure come quando aveva 15 anni.
Sul cinema italiano Sorrentino dice: "C'è poca concorrenza. Si è creato un oligopolio che appiattisce la produzione. C'è tanta paura nel provare a fare qualcosa di diverso, anche perché girare un film costa tanto". E sulle storie da raccontare: "In Italia c'è un panorama molto attraente. Basta aprire un giornale e la cronaca o la politica ti offrono un sacco di spunti. I personaggi più interessanti alla fine sono quelli che fanno cose malsane al Paese e da noi, purtroppo, ce ne sono tanti".

LEGGI L'INTERVISTA COMPLETA

martedì 4 ottobre 2011

LYNCH EMPIRE: dal cinema al disco Crazy Clown Time

di Lorenzo Lamperti

Alzi la mano chi non ne sente la mancanza... Ehm, beh okay voi abbassatela... Sono in tanti a sentirsi in astinenza da David Lynch. Sono passati esattamente cinque anni dal suo ultimo lungometraggio, INLAND EMPIRE, che venne presentato nel settembre 2006 al Festival di Venezia quando il buon David si portò a casa il Leone d'oro alla carriera. Da lì in poi, stop. Non è la prima volta che tra un film di Lynch e il successivo passa parecchio tempo. Passarono cinque anni anche tra Fire Walk With Me e Lost Highway (Strade perdute) e tra Mulholland Drive e lo stesso INLAND EMPIRE. Ma le altre volte si sapeva che il regista di Eraserhead e Velluto blu stava lavorando a qualcosa. Ora è diverso. Sembra che Lynch non abbia nessuna idea per un nuovo lungometraggio. Ne saranno felici tutti coloro che lo trovano troppo complicato e oscuro, tutti gli altri iniziano a preoccuparsi. Eh sì che di voci ce n'erano state su suoi nuovi progetti, ma lui li ha smentiti tutti, compreso il chiacchierato film d'animazione Snoot World. Dal 2006 in poi Lynch ha sfornato solo qualche cortometraggio. Gli ultimi due suoi video sono stati lo spot lungo per Dior intitolato Lady Blue Shanghai e il corto per la Viennale The 3S.




La verità è che Lynch sembra essere molto preso dai suoi progetti musicali. Lynch ha sempre avuto un'attenzione particolare alla musica, e per qualcuno dei suoi film ha anche composto delle tracce per la colonna sonora. Ma ora si rimette totalmente in gioco su questo versante con un disco che si chiama Crazy Clown Time che uscirà il prossimo 8 novembre. Un disco da solista con tracce elettropop, tipo i due singoli che anticipano l'album: "Good Day Today" e "I Know". Per il video di "I Know" è stato indetto un concorso per giovani artisti. Tra i 450 video arrivati, lo stesso David Lynch ha scelto quello di Tamar Drachli, che ha in effetti un'atmosfera molto peculiare e in tono con la poetica del maestro.



Insomma, dagli occhi si passa alle orecchie. Vedremo se Lynch saprà deliziare il suo pubblico con un altro medium. Comunque vada, non si può non lodare il coraggio di un autore che ama sperimentare e spaziare tra le diverse forme d'arte. Lynch, infatti, nasce prima di tutto pittore. Poi, come ha dichiarato una volta: "Un giorno entrò un soffio di vento nella mia stanza e il quadro che stavo dipingendo sembrò animarsi. Lo vidi muoversi. In quel momento decisi che avrei voluto fare cinema". Un cinema surrealista, perturbante, unico tanto da acquisire l'etichetta di lynchano. Già i corti e i mediometraggi di Lynch, su tutti The Grandmother, mostravano qualcosa di diverso, di mai visto. Una sperimentazione continua e allucinata nel rapporto tra immagini e audio. Per il lungometraggio d'esordio, arrivò la benedizione di Stanley Kubrick: "Se c'è un film che rimpiango di non aver girato? Sì, uno solo: Eraserhead". Dopo aver decostruito il classicismo (The Elephant Man), il thriller (Velluto blu) e aver inventato un nuovo modo di fare televisione (Twin Peaks), Lynch ha esplorato i più reconditi luoghi dell'inconscio umano con quella che può quasi essere considerata una trilogia: Lost Highway, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE. E ora? Cosa resta da fare per Lynch nel cinema? Dopo aver realizzato un'opera capitale come INLAND EMPIRE è difficile per un autore andare avanti, impossibile andare oltre. "La sensazione, netta e inspiegabile è che Lynch abbia realizzato la sua Odissea". Difficile dare torto al critico che pronunciò questa frase al Lido dopo aver visto l'ultimo film del regista del Montana. In INLAND EMPIRE l'immaginario di Lynch è letteralmente esploso e con esso il suo mondo cinematografico. Lynch non si è risparmiato, ha dato fondo a tutto se stesso creando un'opera che non potrà mai superare. Non tanto e non solo per l'esito artistico, ma proprio dal punto di vista immaginistico. L'unica possibilità è che Lynch si metta a fare film completamente diversi: un film d'animazione era un'idea. Altre opzioni sono un documentario o forse una commedia. C'è chi sogna ancora di vedergli un giorno girare Ubik tratto dal romanzo di Philip K. Dick. Ma Lynch è difficile che documenti, tragga, si ispiri. Lynch non descrive mondi. Lui demiurgicamente, li crea. E se non dovesse più fare film, non dimentichiamoci che Lynch non è un regista cinematografico. E' un artista.

lunedì 3 ottobre 2011

Manetti bros, incontri ravvicinati del quarto tipo

di Lorenzo Lamperti

Pubblichiamo di seguito il testo di un'intervista realizzata ai Manetti bros. lo scorso 3 settembre, quando i due fratelli registi, tra le altre cose, di Piano 17 si trovavano al Festival di Venezia per presentare L'arrivo di Wang.

Come ci si sente a essere per la prima volta al festival di Venezia con un vostro film?“È un misto di felicità e paura. Siamo un po’ preoccupati perché siamo qui con un film che non è tipico per un festival come quello di Venezia. Ci sentiamo molto degli outsider qui al Lido”.
Come nasce l’idea di girare un film di fantascienza?“Nasce dall’incontro con i più grandi cervelli della grafica 3D in Italia, quelli della Palantir Digital, una squadra dove c’è tra gli altri anche Maurizio Memoli, che ha lavorato ai modelli di Avatar. Il 3d in Italia non ha ancora preso piede al cinema, ma visto che loro volevano fare un film e noi già li conoscevamo ci siamo detti: perché non unire le forze?”
Per il vostro film precedente, Piano 17, si era parlato molto del vostro basso budget. Qui invece quali sono state le spese di produzione?“Quando si fa un film di genere in Italia le spese sono sempre e per forza basse. Però stavolta abbiamo deciso di non dire quanto abbiamo speso, perché se no finisce come per Piano 17, che si parla solo di quello e non del film.”
È raro che in Italia si faccia un film sugli alieni. Quest’anno invece arrivano a Venezia ben due film con questo argomento: il vostro e quello di Gipi. Cosa può significare?“Noi e Gipi facciamo parte della stessa generazione. Siamo cresciuti con i fumetti e i romanzi di fantascienza. I nostri film saranno sicuramente molto diversi, però il fatto che ci ritroviamo qui insieme credo sia un buon segno. Magari è la volta buona che il cinema italiano conosca un ricambio culturale e ci si avvicini un po’ al cinema di genere.”
Per il futuro che progetti avete?“Intanto stiamo già montando il nostro film successivo, che è un horror in 3d e si chiama La stanza dell’orco. Poi in cantiere abbiamo una storia western. Certo, il nostro sogno sarebbe fare un bel film su un supereroe: magari un bell’Uomo Ragno. Non Spiderman come lo chiamano adesso, eh. Proprio l’Uomo Ragno.”

sabato 1 ottobre 2011

Cronenberg non è più pericoloso: A Dangerous Method

di Elisa Fontana (iCine.it)

Fa il suo esordio nelle sale A Dangerous Method, ultimo lavoro del regista canadese David Cronenberg, presentato in concorso al 68° Festival del Cinema di Venezia
La pellicola racconta l’evolversi della relazione tra due grandi personalità della psicanalisi, Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Gustav Jung (Michael Fassbender), e del loro rapporto con Sabina Spielrein (Keira Knightley), giovane donna affetta da grave isteria con la quale l’analista svizzero decide di sperimentare l’allora innovativo trattamento freudiano. La scena si apre sulla coraggiosa recitazione della Knightley che, per gran parte del primo tempo, domina incontrastata lo schermo, restituendo senza inibizioni i tormenti psicologici che impediscono a Sabina di vivere una vita normale, dilaniandone tanto lo spirito quanto il corpo. Proprio nell’analisi della malattia della donna e delle sue origini emerge la nota tendenza di Cronenberg ad indagare nel lato più oscuro e perturbante dell’esperienza umana e a toccare, come solo lui sa fare, le corde più intime e sensibili dello spettatore.
Dopo un inizio convincente, il film si assesta su toni più pacati, procedendo ad approfondire la relazione fra i tre protagonisti. Mentre il rapporto tra Jung e Sabina valica ben presto i limiti della relazione medico paziente, anche grazie all’intervento di Otto Gross (Vincent Cassel), psichiatra dalla dubbia moralità in cura da Jung, il sodalizio tra i due studiosi prende avvio sotto i migliori auspici e Cronenberg ne segue il divenire, dall’apprezzamento incondizionato del discepolo verso il maestro sino ai primi dissensi che approfondiranno sempre più il divario tra i due. Proprio in questo varco si inserirà la giovane Sabina quando, dall’essere amante dell’uno, inizierà lentamente a divenire allieva dell’altro, allontanandosi sempre più dall’analista svizzero per ricercare una maggiore stabilità e una propria identità professionale.
Nonostante le grandi potenzialità offerte dalla tematica trattata, la pellicola si concentra soprattutto sui dialoghi e persino le tinte usate per disegnare le ambientazioni relegano gli scenari sullo sfondo, quasi a voler lasciare il campo libero alle conversazioni tra i protagonisti e all’evolversi dei loro rapporti; il risultato è un film un po’ verboso ed insolito per Cronenberg che, affascinato dal materiale narrativo, se ne lascia in qualche modo sopraffare senza dominarlo: nonostante l’inizio porti chiara la firma autoriale, il tocco personale del regista si perde ben presto lasciando lo spettatore davanti a un lavoro indubbiamente ben fatto, piacevole e interessante, ma dal sapore neutro, ben lontano dalle prove a cui l’autore canadese ci ha abituato.

venerdì 30 settembre 2011

Dany Boon non ha "niente da dichiarare"

Vedere Giu' al nord in lingua originale in un cinema a poche decine km di distanza dal Nord Pas de Calais era una magnifica esperienza cinematografica. Soprattutto divertente. Anche se eri un italiano che sapeva sì spiaccicare qualche parola in francese ma di certo non era pronto per comprendere al meglio l'accento ch'tis non potevi controllare le continue risate. Tre anni e un remake, quasi due, italiano dopo era lecito aspettarsi molto da Niente da dichiarare?, il secondo film del regista Dany Boon. E invece... e invece il secondo genito non regge il confronto del fratello maggiore. Ce lo si poteva aspettare, certo, ma il crollo verticale del divertimento si sperava che si potesse evitare.
Lo schema è sempre quello di Giù al nord: insofferenze regionali, anzi in questo caso nazionali, stereotipi transnazionali, commedia delle incomprensioni, buoni sentimenti. La storia è ambientata ai tempi di Maastricht e dell'Europa aperta. Le dogane tra Paesi stanno per sparire e tra Francia e Belgio il passaggio sta per diventare libero. I doganieri francesi e belgi sono disperati, soprattutto il vallone Ruben Vandevoorde, interpretato da Benoit Poelvoorde. I litigi con Mathias Ducatel sono all'ordine del giorno ma i due saranno chiamati a cooperare in una squadra sperimentale dell'Europa unita. Problema in più: Mathias è fidanzato con la sorella di Ruben. E Ruben odia i francesi.
Anche Giu' al nord procedeva lungo la sdolcinata strada dell'apprezzamento delle differenze e della ricomposizione degli opposti, ma qui tutta la verve comica si perde per strada. Il ritmo è abbastanza fiacco, e la storia parallela dei contrabbandieri di droga non appassiona. Insomma, sembra che Dany Boon, che comunque conferma la sua bravura attoriale, abbia preferito adagiarsi su un modello che gli aveva assicurato successo e riconoscimenti. Con un problema: stavolta era molto meno ispirato. E soprattutto non sfrutta gli spunti potenzialmente divertenti, come l'uso dell'informatica e dei telefoni cellulari. Certo, anche qui la visione in lingua originale migliorerà la visione, soprattutto nella cena di Capodanno tra Mathias e la famiglia della sua fidanzata.
Insomma, ci si aspettava molto di più di questo film spento e abbastanza trascurabile. Va beh, tutti i biloutes  terranno in mente quel magico gioiellino che è Giu' al nord... dubras!

mercoledì 28 settembre 2011

Oscar: Russia, la candidatura di Mikhalkov è un caso politico

Come anticipato, Terraferma è il candidato italiano agli Oscar. E ora si discute molto sul fatto se si tratti della scelta giusta o meno. Personalmente, la scelta di Habemus Papam mi sarebbe sembrata più appropriata, se non altro per il consenso che il film di Nanni Moretti ha riscosso all'estero. Ma lasciando per un attimo da parte i nostri errori, andiamo a vedere quello che succede in un altro Paese che ha dato tanto alla storia del cinema, la Russia.
La designazione del film da mandare all'Oscar in Russia è diventata un caso politico. Eh sì che i russi hanno tanto problemi a cui pensare in questi giorni, compresa la ricandidatura di Putin per le elezioni che ci saranno questa primavera. Eppure proprio il cinema diventa ancora una volta cartina di tornasole del difficile momento del Paese. La giuria ha scelto Burnt by the Sun di Mikhalkov, terzo capitolo della trilogia cominciata nel 1994 con Il sole ingannatore. Detta così, nessun problema. Mikhalkov è un habituée dell'Oscar, che ha vinto proprio con Il sole ingannatore nel 1995. Ha anche vinto a Venezia nel 1991 con Urga, e avrebbe meritato il Leone d'oro anche nel 2007 con 12. Peccato che già il secondo capitolo della saga avesse preso una piega spaventosamente patriottica, che pare essere stata ancor più accentuata in questo terzo capitolo.
Burnt by the Sun è stato stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico ma ha ottenuto cinque voti su otto nella commissione dove, udite udite, sedeva lo stesso Mikhalkov. Un conflitto di interessi quantomeno curioso. Il presidente Vladimir Menshov, già premio Oscar nel 1981 col suo Mosca non crede alle lacrime si è rifiutato di firmare il verbale della seduta, criticando pubblicamente il verdetto, a suo dire manovrato con loghce clientelari dal potente collega. Mikhalkov in effetti ha guadagnato una potenza a dir poco incredibili: è il presidente dell'Unione Cineasti Russi e per il suo ultimo film ha ottenuto uno dei finanziamenti governativi più costosi del cinema russo, pari a 55 milioni di dollari, anche se l'interessato dice che sono 40. Quanta differenza con le difficoltà a girare un film che aveva un genio della pellicola come Andrej Tarkovskij, sabotato a più riprese dal regime sovietico. Resta così escluso dalla corsa alle statuette, oltre a Elena di Andrej Zvjagintsev (premio della giuria a Cannes nella sezione Un Certain Regard), l'erede prediletto proprio di Tarkovskij, vale a dire quel Sokurov che ha incantato Venezia con il suo Faust.
Insomma, la decisione della commissione sembra proprio un delitto. Vedremo se prima o poi un Dostoevskij penserà anche a un castigo.

Lorenzo Lamperti

martedì 27 settembre 2011

Oscar: il candidato italiano sarà Terraferma

Habemus candidato. Le riserve saranno sciolte solo domani, mercoledì 28 settembre, ma il film che concorrerà agli Oscar 2012 sembra già deciso: è Terraferma di Emanuele Crialese. Ebbene sì, secondo le indiscrezioni lo strafavorito Nanni Moretti pare che dovrà restare a guardare. Il suo Habemus Papam, che ha ben figurato al festival di Cannes, dovrebbe perdere la corsa con il Leone d'argento di Venezia.
La giuria, che si riunirà domani presso l'Anica, è orientata sul nuovo film del regista di Nuovomondo. I registi Marco Bellocchio e Luca Guadagnino, le produttrici Francesca Cima, Tilde Corsi e Martha Capello, il distributore Valerio De Paolis, la presidente dei cine-esportatori italiani Paola Corvino, il giornalista Niccolò Vivarelli e Nicola Borrelli per il ministero dei Beni culturali: ecco l'elenco dei giurati che hanno visionato le otto opere proposte. Corpo celeste di Alice Rohrwacher, Notizie degli scavi di Emidio Greco, Vallanzasca di Michele Placido, Nessuno mi può giudicare di Massimiliano Bruno, Tatanka di Giuseppe Gagliardi e Noi credevamo di Mario Martone erano gli altri candidati. Ma la partita era tutta tra Moretti e Crialese, anche se quasi la totalità era convinta che fosse il buon Nanni a giocarsi la possibilità di andare a Hollywood.
E invece, pare aver avuto la meglio la storia sull'immigrazione di Crialese. Per sapere se entrerà nella cinquina finale dei candidati all'Oscar come miglior film straniero bisogna aspettare il 24 gennaio 2012, quando l'Academy annuncerà le candidature. Ultimo appuntamento il 26 febbraio con la cerimonia di premiazione presentata da Eddie Murphy. Allora potrebbe esserci un altro film "italiano", This Must Be The Place di Paolo Sorrentino, girato negli Usa in inglese e che perciò potrebbe concorrere per le categorie principali. Tra l'altro la Weinstein, quella de Il discorso del re, ha appena acquistato la pellicola e quindi le chance, almeno per una nomination a Sean Penn come migliore attore, aumentano.
Molto più difficile e impervia sarà la strada per Terraferma, se Terraferma sarà, vista l'ampia concorrenza. E chissà se almeno quest'anno i giurati avranno azzeccato la scelta del film da candidare. Negli utlimi tre anni avevano commesso almeno due errori clamorosi, escludendo prima Il divo a beneficio di Gomorra e poi L'uomo che verrà di Giorgio Diritti a favore de La prima cosa bella di Paolo Virzì. L'Italia è il Paese con più statuette per il miglior film straniero. Se dobbiamo morire, che almeno non sia un suicidio.

lunedì 26 settembre 2011

Carnage, il massacro di Polanski

Faust di Sokurov deve essere davvero un capolavoro. Eh sì, perché vedendo Carnage non si riesce a capire come possa non aver vinto l'ultimo festival di Venezia. Ispirandosi all'opera teatrale "Il Dio del massacro" di Yasmina Reza, qui co-sceneggiatrice, Roman Polanski torna ai più alti livelli della sua produzione cinematografica.
Carnage è un dramma da camera, nel vero senso della parola. Tutto il film si svolge all'interno di una stanza, il salone della coppia Jodie Foster-John C. Reilly, che "ospitano" un'altra coppia, quella composta da Cristoph Waltz e Kate Winslet. L'obiettivo è trovare un accordo pacifico dopo che il figlio dei secondi ha picchiato quello dei primi con un bastone. Prima e dopo il corpus del film, i due quadri esterni che ritraggono i due bambini in campo lunghissimo. Una lezione di cinema e non solo, quella dell'autore di Rosemary's Baby, che indaga sulle meschinità, vizi e invidie degli uomini e donne del nostro tempo.
Tutto è giocato sulla ripetizione e la complicità con gli attori, tutti in stato di grazia. Il film gioca continuamente su due livelli paralleli: il parlato, l'esplicito, che invade tutta la storia in un flusso continuo, e il non detto, l'implicito, che arriva allo spettatore costretto a guardare tra le pieghe dell'immagine, tra il suono delle parole. I tic dei protagonisti tornano prepotenti e caratterizzano al massimo i quattro. Lo spettatore sa tutto di loro, pur non sapendo nulla. Li si vede solo in azione nel momento, in divenire, ma sembra di conoscerne passato e presente. Addirittura il futuro. Anche se prima e dopo il loro "civile" incontro non c'è nulla. Solo i loro figli.
Sopra le righe Jodie Foster, la paladina dei diritti civili che scrive libri sull'Africa e la fame nel mondo e non si perde una mostra d'arte. Divertentissima Kate Winslet, frustrata donna in carriera trascurata dal marito che prima vomita sul prezioso tavolo della Foster e poi si ubriaca col whisky. Efficace John C. Reilly, sempliciotto che si sforza di sembrare culturalmente attivo per compiacere la moglie, ma che poi lascia per strada di nascosto il criceto della figlia. Straordinario Cristoph Waltz, avvocato senza scrupoli che sputa sentenze e sta sempre al telefono.
Incredibile come un film costruito in questo modo riesca a essere sempre più appassionante, mano a mano che si scoprono le piccole amoralità, le grandi contraddizioni e l'impossibilità di comunicare degli esseri umani. E non credete a chi vi dice: potrebbe essere uno spettacolo di teatro. Carnage è un film e rappresenta al meglio l'arte cinematografica. Se la macchina da presa non si fa notare non significhi che non ci sia e non sia sapientemente manovrata. E poi a teatro come si potrebbe leggere la rabbia sul volto di Jodie Foster, la frustrazione su quello della Winslet, la meschinità in quello di Reilly e la strafottenza su quello di Waltz?

Lorenzo Lamperti

mercoledì 21 settembre 2011

Super 8, l'.E.T. 2.0

Ohio, 1979: sei ragazzini sono alle prese con la realizzazione di un film in super 8 da presentare a un concorso per giovani talenti. Una notte, seguendo le direttive del piccolo regista, i protagonisti sfuggono di soppiatto dalle loro camerette per andare incontro a un’incredibile avventura: organizzando il set sulla banchina della stazione si trovano infatti ad essere involontari testimoni di un colossale incidente ferroviario, in seguito al quale eventi inquietanti iniziano a susseguirsi nella cittadina, gradualmente invasa dalle forze militari impegnate ad insabbiare un oscuro mistero.
Prodotto da Spielberg e girato da J.J.Abrams, creatore della pluripremiata serie tv Lost, Super 8 è una vera e propria operazione nostalgica che ricrea ad arte il mood dei film generazionali degli anni ‘80.
Con lo sguardo ben fisso sul passato e sulle pellicole di Spielberg che hanno fatto la storia del cinema, Abrams recupera brillantemente e con mano sapiente vecchi modelli narrativi e ci racconta un’America che non c‘è più, in cui lo sguardo narrante dei giovani protagonisti è ancora uno sguardo ingenuo e sognante; ci racconta , con semplicità e freschezza, una storia d’avventura, di amicizia e d’amore in cui i tredicenni sanno ancora entusiasmarsi per i razzi e per i trenini, per le avventure e le ragazzine dai capelli biondi.
Protagonista indiscusso della pellicola l’alieno che, come il suo precursore ansioso di telefonare a casa, ha conosciuto il lato peggiore della razza umana e non vede l’ora di ritornare sul suo pianeta. A differenza dell’alieno verde dal dito luminoso però, questo non ha bisogno della protezione dei ragazzini, anzi, reagisce con violenza ai soprusi mascherati da ricerche scientifiche diventando una minaccia per tutta la popolazione. Pur nella sua furia, mostra però di avere più cuore dei suoi aguzzini e, di fronte al candore infantile, sfodera uno sguardo inatteso e nascosto, sgranando occhi incredibilmente simili agli specchi enormi del piccolo E.T.
Super8 è una pellicola che, bisogna riconoscere, non reinventa e non aggiunge niente, e nemmeno ci prova: riesce perfettamente proprio nel rimanere fedele al suo spirito nostalgico e risulterà davvero irresistibile per tutti i bambini degli anni ’80, cresciuti a suon di Goonies e Stand By Me.
E forse, ci auguriamo, anche per quelli del nuovo millennio.
Elisa Fontana

sabato 10 settembre 2011

Venezia, i vincitori. Ecco chi porterà a casa il Leone d'oro (forse)

Ormai ci siamo, anche l’edizione 2011 del festival di Venezia sta per passare agli annali. Si attende solo la consegna del Leone d’oro in Sala Grande nella giornata di sabato 10 settembre. Come sempre è già scattato il toto-Leone. Proviamo a vedere chi potrebbe spuntarla.
Partiamo da due fondamentali presupposti: primo, con questa edizione scade il mandato di Marco Muller e, secondo, il presidente della giuria è l’eccentrico regista americano Darren Aronofsky. Cominciamo da Muller e andiamo a vedere quali sono i leoni del suo mandato. Si comincia con Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh (2004), poi ecco I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee (2005), Still Life di Jia Zhang Ke (2006), Lussuria di Ang Lee (2007), The Wrestler di Aronofsky (2008), l’israeliano Lebanon (2009) e Somewhere di Sofia Coppola (2010). Un complesso abbastanza eterogeneo ma comunque tutti film piuttosto d’autore. Spiccano i tre leoni cinesi con addirittura la doppietta di Ang Lee, anche se uno dei suoi due film è girato negli States. Si sa che la passione di Muller è il cinema cinese, ma Still Life e Lussuria non sono opere all’altezza. Poi abbiamo due americani, un britannico e un israeliano. Azzeccati Brokeback Mountain e The Wrestler e azzecatissimo Lebanon per la sua qualità cinematografica, molto meno Vera Drake e soprattutto il borioso e inutile Somewhere. Che cosa manca nell’elenco? Un film italiano. È il desiderio del ministro Galan, quello di veder vincere un film nostrano per ridare lustro e importanza alla Mostra. Se Muller ambisce alla riconferma del mandato deve sperare che la giuria premi un italiano.
La giuria, appunto. Di solito si tende a identificare il verdetto con il presidente e quasi mai è uno sbaglio. Basti ricordare due casi celebri: Wim Wenders che premia un americano a Venezia dopo tempo immemore (proprio Aronofsky con The Wrestler) confermando la sua passione a stelle e strisce e poi Tim Burton che a Cannes 2010 consegna la Palma al thailandese Apichatpong Weerasethakul per il tedioso Zio Boonmee eccetera eccetera. Cosa piace ad Aronofsky? Il cinema di ricerca e soprattutto perturbante. I nomi che più si accostano al regista di Black Swan sono certamente David Cronenberg con il suo A Dangerous Method e Sokurov con il suo Faust. Ma attenzione, negli ultimi giorni un regista in concorso potrebbe aver pronunciato la parola magica: “Il mio unico riferimento cinematografico è David Lynch. Quando vidi Eraserhead pensai che fosse la cosa più bella che avessi mai visto”. Firmato Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, fumettista ed esordiente autore de L’ultimo terrestre. Aronofsky adora Lynch ed è debitore del suo cinema. Basti vedere l’esordio di Aronofsky, Pi greco, un Eraserhead a venti anni di distanza.
E allora ecco che i sogni di Galan, l’ambizione di Muller e il gusto di Aronofsky potrebbero conciliarsi nella scelta di Gipi. Un Leone d’oro a un alieno. Di certo non si può dire che il pensiero  non sia suggestivo. Ma attenzione, c'è chi parla di Shame di Steve McQueen e soprattutto di Carnage di Roman Polanski. Quella di Polanski sarebbe forse la scelta più popolare e mediatica della giuria, e allora a prescindere della qualità, che si dice ottima, del film potrebbe essere questa la scelta finale. Ancora qualche ora e vedremo.


Milano Film Festival: il cinema è aperto?

Punto di domanda o no? Se lo chiede il Milano Film Festival, ormai stabilmente uno degli appuntamenti festivalieri più importanti in Italia e non solo. Siamo alla sedicesima edizione e il Mff è segnato sul calendario di tutti i milanesi che abbiano una minima confidenza o interesse con e verso la settima arte.
Dal 9 al 18 settembre ci sarà una pacifica invasione di celluloide nel capoluogo lombardo. Gli organizzatori si aspettano un ulteriore incremento di pubblico, dopo che nel 2010 si è registrato il record di 120 mila biglietti staccati. “Siamo rimasti un po’ underground senza volerlo, è giunto il momento di uscire allo scoperto” dice Beniamino Saibene, ex direttore e ora produttore del festival insieme a Lorenzo Castellini. Il Mff vuole avanzare di livello e anche per questo moltiplica le sedi. Dalla classica sala del Teatro Strehler al Teatro Studio, ora sono stati conquistati anche dei veri e propri cinema: Rosetum, Anteo, Auditorium San Fedele. E poi c’è uno schermo anche al Parco Sempione, dove sono stati allestiti 900 posti a sedere. Il Mff si allarga a macchia d’olio e il concorso si divide come sempre in due sezioni: lungometraggi e cortometraggi. Di qui nel corso degli anni sono transitate opere di primo livello. Tutte anteprime nazionali, film quasi sempre indipendenti, è difficile capire prima quale potrebbe essere quella che fa il botto. Ma una chence va data a tutti, perché la selezione è sempre di grande qualità.
Dopo aver ospitato Jim Jarmusch nel 2010, ora ecco una retrospettiva su Jonathan Demme, il regista de Il silenzio degli innocenti e tanti altri thriller. E poi non manca mai la musica: ogni sera un concerto sui gradini dello Strehler.

Venezia, facciamo il punto della situazione

Ultimo giorno di festival, tempo di riscontri, bilanci, riassunti, compendi e chi più ne ha più ne metta. La seconda parte di rassegna è filata via tra fischi, ululati, applausi, standing ovation, accuse e paparazzate vere o presunte.
Puntuali come la rituale visita dal dentista, anche nella 68esima edizione del festival di Venezia c’è stato spazio per il film italiano, più o meno brutto, dileggiato dalla critica in sala durante la proiezione stampa. Di solito tocca ai film che si prendono troppo sul serio. Celebre il caso di due anni fa con Il grande sogno di Michele Placido con tanto di Goffredo Fofi che urla “Vergogna” ululando e alzando in aria il bastone che usa per camminare uscendo dalla sala. E il buon Goffredo aveva le sue ragioni… Una doppietta quella di Placido, visto che qualche anno prima si era preso pernacchie per Che sarà di noi. Quest’anno la dura legge del fischio è toccata a Cristina Comencini e al suo Quando la notte, dramma sentimentale e materno con calde scene tra Filippo Timi e Claudia Pandolfi. Chi era presente in sala racconta di risate di scherno, l’arma più spietata a disposizione di un critico cinematografico. La Comencini non l’ha presa bene e ha parlato di “violenza, complotto: gli uomini non possono capire”. D’accordo, le reazioni saranno state pure esagerate da parte della critica durante la visione del film ma uno è pure libero di dire se trova un’opera scadente.
Dall’altra parte del guado invece la strana coppia Friedkin/Sokurov. L’autore de L’esorcista, ormai alle soglie degli 80 anni, ha portato in Laguna Killer Joe, una storia del tutto auto convenzionale. D’altra parte, Friedkin non è mai stato prevedibile e ha ancora la forza di ricercare storie originali come questa dove recita l’ottimo Emile Hirsch. Il grande regista russo, invece, presenta la sua opera forse più ambiziosa dai tempi di Arca russa, ovvero la sua riduzione cinematografica del Faust di Goethe. Un’opera magniloquente e visionaria, e come sempre accade con i film di Sokurov si è immersi in un altro spazio di visione e percezione rispetto a quello consueto. C’è stato poi Gipi con il suo L’ultimo terrestre, ritratto di un’Italia futura e così simile a quella in cui viviamo.
In definitiva, si può dire che il programma di questa edizione sia stato ricco e di qualità come raramente è accaduto negli ultimi anni. In attesa di capire se quello di Muller sia un addio o un arrivederci, quantomeno il buon Marco è riuscito nel lasciare un buon ricordo e a gettare un ponte per il futuro. Chissà se sarà lui ad attraversarlo.

mercoledì 7 settembre 2011

Milano, Svizzera. Ecco i Pardi di Locarno

Stavolta ruggiscono da soli. I Pardi di Locarno, dopo anni di convivenza forzata con la "Panoramica" di Venezia si mettono in proprio e guadagnano un loro spazio esclusivo. Da domani sette titoli in visione tra cinema Apollo e Umanitaria.
L'apertura è col botto: subito Super 8, il fanta thriller prodotto da Steven Spielberg e diretto da J. J. Abrams, il papà di Lost. Il pubblico milanese potrà vedere in anteprima nazionale questa storia su un gruppo di ragazzi cinefili che filmano per caso un disastro ferroviario dai risvolti paranormali, il tutto al cinema Apollo (ore 19,50 e 22,10). Poi via a tutto il resto, che è un resto generoso e di qualità. Ecco dunque l'esordio dietro alla macchina da presa dei gemelli torinesi De Serio con Sette opere di misericordia e il rumeno Best Intentions, premiato a Locarno per la regia di Adrian Sitaru e per l'interpretazione maschile del protagonista Bogdan Dumitrache. Sitaru, tra l'altro, è l'autore di uno dei più bei film di Venezia edizione 2008, dove il suo Hooked trovò un grande favore di critica.
C'è anche l'israeliano Nadav Lapid con il film politico Policeman, tra l'altro premio speciale della giuria al festival svizzero, e l'opera libanese Beirut Hotel. Per vedere qualche noto si può assistere a The Loneliest Planet di Julia Loktev con Gael Garcia Bernal. E poi non può mancare il Pardo d'oro, Abrir puertas y ventanas dell'esordiente svizzero-argentina Milagros Mumenthaler.

martedì 6 settembre 2011

Venezia 2011, un festival col buco

Il vecchio Palazzo del Cinema di Venezia
I giornalisti, gli attori, i registi, gli artisti e chi più ne ha chi ne metta senza dimenticare i semplici visitatori della 68esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia si ritrovano di fronte a uno spettacolo desolante: il cratere di quello che dovrebbe essere il nuovo Palazzo del Cinema.
Altro che cantiere, quello è un'esposizione di amianto a cielo aperto. Ma andiamo con ordine. Nel settembre 2005 viene bandito un concorso internazionale di progettazione per il nuovo Palazzo del Cinema. Lo vince il gruppo 5+1AA&Ricciotti. Il progetto è ambizioso e avveneristico: uno spettacolare manufatto a forma di conchiglia che si affaccia sul mare che diventerebbe così la sala principale del festival con una capienza di 2400 posti.
La ricerca dei soldi però, inizia solo dopo il bando di concorso. E la copertura finanziaria non è facile da trovare. Per far saltare fuori i fondi, nel 2007 il ministro Rutelli inserisce la costruzione del Palazzo tra le opere straordinarie. La data di consegna doveva essere il 2011, in tempo utile per la celebrazione dei 150 anni di Unità d'Italia.
Il 2011 e oggi e nel frattempo alla luce del sole arriva una salutare dose di amianto. Il cratere diventa piano piano più grande e l'impressione è quella di un eterno provvisorio che non può fare bene alla reputazione del festival. Nel progetto sono già stati spesi circa 30 milioni di euro, tra l'altro tutti soldi pubblici, ma del Palazzo a forma di conchiglia manco l'ombra. Anzi, i lavori si sono proprio interrotti.
E mentre fioccano le accuse reciproche tra Rutelli e Galan: "Il buco l'hai fatto tu" "No l'hai fatto tu" il pubblico nazionale e internazionale si aggira sgomento intorno alle recinzioni. Dentro, il vuoto.

Lorenzo Lamperti

lunedì 5 settembre 2011

Venezia, giorno 5: Film dell'altro mondo

Incontri cinematografici del quarto tipo. Il cinema italiano non è conosciuto nel mondo per essere all'avanguardia sui generi. O almeno non lo è più. Se qualche decennio fa Sergio Leone e Mario Bava riuscivano nell'impresa di diventare quasi mainstream con i loro western e horror, oggi chi ne fa le veci fa molta fatica.
I Manetti bros
Innanzitutto per la povertà di mezzi. Oggi girare un film di genere in Italia significa direttamente autoemarginarsi a un pubblico di nicchia. E i soldi per girare è già tanto se arrivano, quando arrivano. E' così una piacevole sorpresa accorgersi che invece nella 68esima edizione del festival di Venezia arrivano due film italiani sugli alieni. Un po' di vecchia sana Science Fiction non guasta, soprattutto nel panorama desolanetemente omologato del cinema italiano.
Ed ecco spuntare fuori L'ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti e L'arrivo di Wang dei Manetti bros. Diversi, eppure così simili gli autori di queste due pellicole. Stessa generazione, stessa passione per i fumetti e i romanzi di fantascienza. Magari Pacinotti, in arte Gipi, amava cose un po' ricercate e i Manetti quelle un po' più pop come i fumetti Marvel, ma comunque l'indirizzo culturale è quello. Gipi e i Manetti si ritrovano a Venezia.
Gipi è un affermato fumettista e L'ultimo terrestre, che racconta un'invasione aliena, è il suo primo film da regista. Si ritrova direttamente nella selezione ufficiale del festival ed è uno dei tre italiani in concorso. I Manetti bros, invece, approdano a Venezia dopo tanta gavetta e parecchie soddisfazioni. Il loro ultimo film, Piano 17, aveva fatto parlare di sé per il bassissimo budget con il quale era stato girato. Eppure era un signor thriller. Questa volta, con L'arrivo di Wang i Manetti bros si sono lasciati andare nella sperimentazione di effetti visivi sofisticati, grazie alla collaborazione con la Palantir Digital, studio all'avanguardia nella grafica 3d, anche se è un effetto ancora poco usato in Italia. I Manetti, i veri outsider della Mostra, non si sentono autori e il loro film è atipico rispetto a quelli che abitualmente si vedono al Lido.
Gipi e i Manetti uniti per la riscoperta dei generi in Italia. E tra tanti alieni, c'è anche un altro film italiano che parla di Cose dell'altro mondo, firmato da Francesco Patierno e recitato tra gli altri da Diego Abatantuono e Valentina Lodovini. Ma lì gli alieni sono altri...

Hanna, la fiaba glaciale di Joe Wright

di Elisa Fontana
Si apre in un’atmosfera glaciale da fiaba nordica il nuovo film di Joe Wright, che abbandona la sua ormai costante cifra stilistica, la trasposizione da opere letterarie (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, Il solista), e sceglie di cimentarsi in un genere apparentemente molto distante, quello del film d’azione.
Hanna (Saorsie Ronan), giovane figlia di un agente della Cia (Eric Bana), è nata e cresciuta tra i ghiacci delle foreste svedesi ed è stata addestrata per eccellere in tutto, dalle doti fisiche e di combattimento alle conoscenze intellettuali. Ma, come recita Bana in una battuta del suo personaggio, i figli crescono, e Hanna è ormai pronta per scoprire il mondo vero, abbandonare la glaciale immobilità della foresta e affrontare la sua antagonista: l’algida Marissa Wiegler (Cate Blanchett), che sguinzaglierà sulle sue tracce un manipolo di spietati assassini.
Wright si applica con impegno alla riuscita di un film di genere per lui inconsueto, curando il suo prodotto nei minimi dettagli e rendendolo proprio, giocando con gli stilemi letterari che gli sono familiari e introducendo riferimenti culturali di vario tipo.
E’ il modello della fiaba a farla indubbiamente da padrone, ribadito più volte dal costante riferimento ai fratelli Grimm. Il valore allegorico di questo modello permette al regista di giocare nella giusta misura con elementi simbolici, e adattare l’ immagine a vari livelli di significato: la foresta vera e quella metaforica, costituita dal mondo crudele in cui Hanna deve sopravvivere; il ‘lupo’ Marissa, dagli occhi glaciali di Cate Blanchett, che da cacciatore diverrà preda; il mondo alla rovescia della casa dei Grimm, in cui la fiaba si trasforma in un racconto dell’orrore. Contribuisce a questo gioco ben riuscito anche la colonna sonora originale dei Chemical Brothers, che da diegetica diventa extradiegetica e, alternativamente, coinvolge, confonde e inquieta.
Come in un Buildgsromance, Hanna affronta il mondo per scoprire l’ignoto e per crescere, cosa che, per lei, significa prima di tutto sopravvivere. E allora ecco entrare in scena tutte le risorse più tipiche e stereotipate del film d’azione: dagli inseguimenti, alle forze inesauribili dell’eroina, sino ad arrivare alla perfidia monolitica dei cattivi; espedienti, però, qui giustificatissimi, vero colpo di genio di Wright, dal riferimento alla fiaba.
Un prodotto ben riuscito quindi, dal ritmo incalzante, che riesce perfettamente a fondere generi diversi mantenendo il meglio di entrambi, senza incappare nell’elevato rischio di riuscire pretenzioso.

domenica 4 settembre 2011

Venezia, giorno 4: Migranti di successo

Al Pacino in versione Tony Montana nel 2011
Più che i suoi anni, 71, suonano gli applausi. Al Pacino si gode l'ennesima giornata trionfale della sua splendida carriera. Venezia è andata in deliquio per lui dopo aver assistito alla proiezione di Wild Salome, l'opera tratta da Oscar Wilde che segna il ritorno del vecchio Al dietro alla macchina da presa.
Dopo Riccardo III, Pacino si butta in un'altra impresa cinematografica: recuperare la figura della bella figlia di Erodiade, qui interpretata dalla rossa Jessica Chastain, reduce dal successo di The Tree of Life, malickiana Palma d'oro all'ultimi festival di Cannes. Alla conferenza stampa introdotta direttamente da Marco Muller, Al Pacino ha innanzitutto ricevuto il premio alla carriera Jaeger-Le Coultre e poi ha spiegato i motivi del suo ritorno da regista: "Volevo gettare una luce su Oscar Wilde. Per gli americani la cultura e la letteratura europee sono vissute come qualcosa di estraneo". La stessa cosa l'aveva fatta 15 anni fa con Shakespeare ma neppure Riccardo III aveva suscitato quegli entusiasmi di Wild Salome.
Al Pacino è parso in ottima forma, e questo sembra un periodo molto positivo per l'attore di tanti grandi film da Il Padrino a Carlito's Way. Solo qualche settimana fa era stato avvistato alla festa per l'uscita in Blu Ray di Scarface. Il 71 enne Al era vestito alla Tony Montana, il protagonista del celebre film di Brian De Palma datato 1983. 
E se Al Pacino, viste le sue origini, si può definire un migrante di successo, anche se non di prima generazione, giusto che la proiezione di Wild Salome capiti nello stesso giorno di quella di Terraferma di Emanuele Crialese. Anche qui si parla di migranti, anche se purtroppo non di successo. Terraferma racconta una terra, la Sicilia, terra d'origine sia di Crialese sia di Al Pacino. In una piccola isola si intrecciano i destini dei suoi abitanti, toccati dagli arrivi dei clandestini, provenienti dal Nord Africa, e in particolare quelli di due donne, un'isolana e un'immigrata. Crialese torna sulle tematiche del suo film precedente, Leone d'Argento a Venezia nel 2006, Nuovomondo. Se lì c'era una ricostruzione storica, con l'emigrazione degli italiani in America, qui si raccontano quasi fatti di cronaca, anche se Crialese dice: "La cronaca era tutto quello che sapevamo di dover evitare, un bagaglio da rielaborare e trasformare, per uscire dal linguaggio televisivo e cronachistico". 
Fortuna o miseria, alla fine è tutta questione del caso. O di latitudine.

sabato 3 settembre 2011

VENEZIA, Giorno 3: Cronenberg applaudito, Bellucci nuda

Il bello di un festival come Venezia è che in una giornata si può vedere di tutto, forse anche troppo. Le scelte, spesso angoscianti, su che cosa vedere sono il sale del festival. Mettere crocette e asterischi sul programma è uno dei passatempi più goderecci di un cinefilo. Capita così, che nel giorno numero 3 dell'edizione numero 68 della Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia si possa vedere il nuovo, attesissimo, film di David Cronenberg e scorgere Monica Bellucci in nudo integrale nel film di Louis Garrel.
Ma il destino dei due film pare essere molto diverso. Applausi e ovazioni per A Dangerous Method, l'opera che segna il ritorno sul grande schermo dell'autore, tra gli altri, di Videodrome, La mosca, M Butterfly, Crash, eXiSteNz e A History of Violence. Era da La promessa dell'assassino, anno di grazia 2007, che Cronenberg non faceva un film. A Dangerous Method sembra però ripagare l'attesa dei suoi numerosi estimatori, raccontando i rapporti tra Sigmund Freud, Carl Jung e la bella Sabina Spielrein, amante dell'uno e allieva dell'altro. Cronenberg ora sembra già il favorito per il Leone d'oro, considerando anche che il presidente di giuria Darren Aronofsky lo ammira molto. Viggo Mortensen, ancora con Cronenberg dopo A History of Violence e La promessa dell'assassino e Carl Fassbender sono una garanzia in un cast completato da Keira Knightley e Vincent Cassel.
La moglie del tenebroso francese, com'è noto Monica Bellucci, ha invece una sorte diversa dal successo del film di Cronenberg. Un été brulant è stato fischiato: pochi applausi e tanti buu. A nulla è servito il nudo integrale della Monica nazionale, che arriva pochi minuti dopo l'inizio del film. Nonostante non si trattasse di una prima assoluta (del nudo della Bellucci si intende) si era molto parlato e fantasticato intorno a una scena descritta come bollente. E invece si racconta di una posa statuaria, pudica, che non ha scaldato gli umori dei presenti in sala. A parte questo, il film di Garrel è stato criticatissimo. Eh va beh, non tutte le Bellucci escono col buco.

venerdì 2 settembre 2011

L'AGENDA DEL CINEMA, Tutti i film del week-end (2-4 settembre)

Gli appuntamenti del cinefilo milanese

Venerdì 2 settembre
  • Cinema in piazza. Super Size Me, Morgan Spurlock (2004). Ore 21,30, Piazza Città di Lombardia
  • Arianteo Porta Venezia. The Next Three Days (Haggis). Ore 21,30, Bastioni di Porta Venezia 3.
  • Arianteo Umanitaria. Un gelido inverno (Debra Granik). Ore 21,30, via San Barnaba 48.
  • Arianteo Conservatorio. Potiche (Ozon) e concerto "France". Ore 21, via Conservatorio 12.
Sabato 3 settembre
  • Cinema in piazza. Viaggio al centro della terra, Eric Brevig (2008). Ore 21,30.
  • Arianteo Porta Venezia. Harry Potter e i doni della morte parte II. Ore 21,30.
  • Arianteo Umanitaria. Porco rosso (Miyazaki). Ore 21,30.
  • Arianteo Conservatorio. Benvenuti al sud e concerto "Jazz...jazz e ironia". Ore 21.
Domenica 4 settembre
  • Cinema in piazza. La musica nel cuore, Kirsten Sheridan (2007). Ore 21,30.
  • Arianteo Porta Venezia. C'è chi dice no (Avellino). Ore 21,30.
  • Arianteo Umanitaria. The Killer Inside Me (Winterbottom). Ore 21,30.
  • Arianteo Conservatorio. Noi credevamo (Martone) e concerto "Noi credevamo... e crediamo ancora". Ore 21.

I Kennedy, quando la tv diventa cinema

Ne avevamo parlato già qualche mese fa, quando era in prima visione negli Stati Uniti. Ora che ne abbiamo visto la prima puntata anche in Italia possiamo riparlarne. Si tratta delle mini serie tv più importante dell'anno, The Kennedys.
Mercoledì 31 agosto, La7 ha cominciato a mandare in onda gli otto episodi della prima stagione del serial più chiacchierato degli ultimi tempi. Il 31 agosto erano in programma i primi tre episodi, il 7 e il 14 settembre sarà la volta degli altri cinque. E anche se siamo solo all'inizio, già si può dire che I Kennedy non riguardano solo gli appassionati di tv, ma anche quelli di cinema. Sì, perché la serie rientra in quella tradizione, molto made in Usa, che vuole le serie tv qualitativamente adattate al cinema. Tutto il contrario di quello che succede in Italia, dove purtroppo è il cinema ad adeguarsi alla qualità, scadente, delle serie tv. Così, da noi accade che gli attori delle fiction finiscano al cinema, affermando l'invasione televisiva nel campo cinematografico. Negli Usa invece sono spesso grandi attori già affermati che si prestano alla tv. E i risultati sono diametralmente opposti.
The Kennedys ha il coraggio di affrontare uno degli argomenti più spinosi dell'America del dopoguerra: la famiglia Kennedy. E lo fa senza riguardo. Greg Kinnear, il volto di Jfk, non è il solito eroe in costume delle fiction nostrane, è un uomo, prima ancora che il Presidente degli Stati Uniti. Con le sue forze e, soprattutto, le sue debolezze. I Kennedy non edulcora, racconta. Scava. Sembra scavare direttamente sui volti di protagonisti in grande forma: dall'immenso Tom Wilkinson nei panni del padre di Jfk a Barry Pepper, ovvero il fratello Bobby, fino a Katie Holmes, la moglie di Tom Cruise che interpreta al meglio Jacqueline Bouvier.
Dalle simpatie del padre per le mosse di Hitler ai metodi non proprio onesti con cui Jfk si fa largo nella politica, il regista Jon Cassar ci va giù duro e dipinge un mondo di potere e di invidie. Di brame e di voglie. E la voglia arriva fino al pubblico di vedere come la serie va avanti. E di sperare che qualcuno in Italia prenda appunti.

Lorenzo Lamperti