“Nessuno è felice nel luogo dove si trova”. Questo è l’assunto di base di Midnight In Paris. Un assunto che potrebbe essere esteso alla stesa esistenza di Allen. Lui stesso aveva parlato di anhedonia decenni fa, ovvero ”l’incapacità di trarre soddisfazione dalla propria esistenza”. Woody è un americano che vorrebbe essere europeo. Ma appena arriva in Europa gli manca Manhattan. Allo stesso modo, anche il protagonista del film, Gil, ha sempre sognato di vivere nella Parigi degli anni Venti. Ma quando il suo sogno si può realizzare comprende che non esiste un’epoca d’oro. La belle époque è relativa, il tempo è un continuo gioco malinconico di rimpianto verso ciò che non si ha. “La nostalgia del non vissuto”, la definiva qualcuno. Bene, è proprio quella che pervade Gil, come Woody.
Un film bellissimo, Midnight In Paris. Crepuscolare, e non potrebbe essere altro vista l’ora del giorno indagata. Leggero, come solo il tocco di Woody può essere. Un tocco inconfondibile, sia che dipinga l’Upper East Side sia che dipinga Tottenham o Mont Martre. Una favola, a cui non si smette di credere neppure per un secondo. Non ci si chiede mai se Gil arrivi davvero negli anni Venti oppure no. Non è quella la questione importante. Né ci si chiede come sia possibile il fatto che ogni mezzanotte su una scalinata nella Parigi del 2010 uno scrittore americano riesca a finire nel circolo letterario di Gertude Stein. E qui incontrare Hemingway, Picasso, Bunuel, Dalì, Scott Fitzgerald. Un piacere citazionistico e decostruzionista che si vorrebbe durasse per sempre. Irresistibile la messa in scena dei rendez vous con gli artisti, su tutti quello con un ottimo Adrien Brody nei panni del surrealista Dalì.
Le tematiche toccate sono quelle dell’Allen più intimista, anche se qui le affronta sempre con il sorriso sulle labbra. Tutto si gioca sul filo di talento e sensibilità. Gil ha la sensibilità per essere un grande scrittore, ma ne ha anche il talento oppure dovrà restare a scrivere scadenti sceneggiature di blockbuster hollywoodiani? Sembra la stessa domanda che guidava Interiors nel personaggio di Joey. Esprimere ciò che si sente. L’ossessione di Allen. Sempre alla ricerca di profondità diverse, quasi non bastasse mai quello che viene detto. Né dove viene detto. Forse Parigi può aiutare Gil e ha aiutato Woody, che dopo un viaggio nel fantastico ancora una volta sceglie la realtà. Anche se questa volta realtà e fantasia sembra possano coincidere. Al contrario di quello che succedeva ne La rosa purpurea del Cairo. Lì Mia Farrow sceglieva la realtà, e ne veniva incontrovertibilmente delusa. Qui Gil sceglie non la realtà, ma il suo tempo. Decide di cambiare il suo tempo e farlo divenire reale. Basterà per vincere l’anhedonia? Non è dato saperlo, ma Woody vorrebbe credere di sì. Lui continua a girare. Ma un monolocale a Mont Martre non vivrà mai.
Lorenzo Lamperti
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